Il “capo” dei 5S (si fa per dire: ancora in gestazione dopo mesi di palude) ha dichiarato che vuole portare il non-partito di nuovo al rango di “primo partito”.
Dalle prime mosse sembra che la strategia per ottenere questo risultato sia quella di fare il partito “di governo e di opposizione”. Ovvero piantare grane al governo con irragionevoli ricattuali demagogiche proposte finalizzate ad accontentare la base del movimento di puerili incompetenti.
In una logica politica corretta i voti si guadagnano governando bene approvando leggi utili e indispensabili ma non sempre gradite alla linea demagogica populista: esattamente l’opposto del progetto dell’avvocato che arriva dopo mesi di contorsioni a una ipotetica leadership della banda di bambocci arroganti incapaci di progetto e di visione e affascinati solo dalla demagogia più criminale.
Tempi duri per la ragione.
Sarà da vedere se i mesi di sciagura del governo Lega-5S dominato dalla stupidità e dall’arroganza avranno insegnato qualcosa agli elettori italiani.
Sarà anche da vedere se Mario Draghi aka whateverittakes consentirà agli sfasciati 5S lo spazio per le loro demagogiche esercitazioni e quanti voti perderanno per farle.
Salvini ha capito che con Draghi non c’è molto spazio per fare il doppio gioco e sta tentando un’altra strada: assorbire Berlusconi per bloccare la marcia trionfale di Meloni e andare al governo con un partitone di “destra italiana”.
Una mossa con molte incertezze:
quanto resta di Forza Italia dopo che Salvini la risucchia? Forse un 3%.
Quanto perde la Lega di Leghisti in fuga da Meloni perchè non tollerano il pacchetto con Berlusca? Forse il 6-8%.
Quanto guadagna il PD da quelli che non l’hanno mai votato ma non vogliono un governo Salvini 2.
Da molto tempo mi chiedo, come penso facciano molti oggi in Italia, quali siano le origini e le radici del degrado che caratterizza la classe politica dirigente del paese e gran parte dei suoi elettori. Ammesso che sia possibile uscire dall’attuale tunnel, è sicuramente necessario cercare di sapere come si sia arrivati allo squallore del quale siamo oggi testimoni, vittime e responsabili.
La drammatica lacuna è culturale, prima che politica: questa classe dirigente politica vive in una bolla astratta, surreale che non ha nulla a che vedere con il senso di vivere in un luogo in un momento[2], vivono nello spazio/tempo prodotto dalle loro agende, dai loro rapporti interni e dai loro diari e calendari, dai loro indifferenti, scettici o fanatici elettori. Leggono sé stessi sui media e da quella lettura hanno di sé stessi un’immagine deforme, in un circuito auto-referenziale riduttivo che li trasforma in meccanismi prigionieri di una equivoca autoreferenzialità
Il vuoto culturale, che è matrice e conseguenza del degrado, li chiude in una gabbia ideologica, che a loro sembra il mondo, e che in realtà è la loro prigione. Purtroppo, in quella prigione, e con le dimensioni di quella prigione, decidono le condizioni e i limiti che il resto del paese deve subire, quasi sempre commettendo irreversibili, quando non letali, errori.[3]
Una classe politica dirigente non è un caso, non è un accidente. È una conseguenza: è lo specchio della società che la esprime. Non ha senso quindi accusarla o ritenerla responsabile dei guai che provoca, come non hanno senso gli insulti e le invettive contro questo o quell’altro suo rappresentante. Una colpa per la quale devo io stesso scusarmi.
In fondo siamo noi i responsabili, il nostro voto, la nostra attenzione o la nostra indifferenza. Per questo la mia domanda iniziale deve essere corretta: è l’origine, sono le premesse dell’attuale squallore della nostra società, non solo quelle della attuale classe dirigente, che vanno cercate e analizzate, ed è questo l’esercizio che vorrei svolgere.
Una figura della situazione
Oggi, dalle cronache quotidiane, non si riesce e costruire un’immagine chiara, definita, dell’Italia. Analizzando i risultati delle recenti elezioni politiche e amministrative, analizzando i profili economici e macroeconomici del Paese, valutando il confronto e la dialettica fra i partiti del governo e dell’opposizione, analizzando la dialettica interna al Consiglio dei Ministri e il confronto fra il governo e la pubblica opinione, fra le parti sociali, grandi corporazioni industriali private e statali, Banche e Istituti Finanziari, Confindustria, Università, associazionismo, sindacati e media… non si riesce a comporre una figura chiara e definita della situazione italiana attuale.
Il Paese appare come una congerie di campanili, di regioni, di istituti, di soggetti politici, sociali e individuali antagonisti fra loro e contro il Governo. Una litigiosità diffusa, continua, aspra caratterizza il confronto culturale, sociale e politico. Riscontro preciso di questa tensione sono i cosiddetti “talkshow” televisivi, dove il dibattito corretto viene sempre travolto da berci, insulti e, spesso, da aggressioni manesche fra i partecipanti. I “moderatori”, in genere settari, provocano, invece di moderare, per compiacere un pubblico che apprezza di più il litigio, e i comportamenti sguaiati e volgari, che le idee dei partecipanti che sono spesso banali, quando non del tutto assenti.
La stessa litigiosità caratterizza i rapporti tra i membri del Governo, ansiosi di occupare spazi di opinione che garantiscono apprezzamento popolare, anche se contrari all’interesse comune del Paese quando non addirittura pericolosi. La prassi corrente del confronto politico è l’inseguimento, nel territorio della più devastante demagogia, fra i vari soggetti.
Questo contesto impedisce la elaborazione di obbiettivi condivisi e la formulazione di coerenti programmi e progetti per raggiungerli. Un problema che è reso ancora più difficile per la carenza, nell’area del governo e dell’opposizione, di competenze e professionalità in grado di esprimerli. Questi il quadro generale delle condizioni per le quali sia il Governo che le opposizioni mancano di visione strategica nel medio e nel lungo termine del Paese e dell’Europa. Dato essenziale per governare il Paese. Si galleggia sul litigio quotidiano, decidendo demagogicamente in base alle cronache dei media e all’immagine di sé stessi che queste riflettono. Una pericolosa involuzione.
Le radici antiche
L’Italia è sempre stata territorio di transito, di invasioni e migrazioni: Etruschi, Sanniti, Latini, Senoni, Ligustri, Greci, Veneti, Dauni, Fenici erano arrivati nella Penisola migliaia di anni prima della Roma dei sette Re. Invasioni e migrazioni che continuarono dopo la conquista e la “federazione” romana, monarchica, repubblicana, imperiale: Unni, Franchi, Normanni, Germani, Slavi, Albanesi hanno continuato a premere e a violare i confini dell’Impero. Roma respingeva con le armi o negoziava con trattati e denaro. Famoso l’aneddoto (18 luglio 386 a. C. secondo Polibio, 390 a C. secondo Varrone) del capo dei Galli Senoni, Brenno, che gettò la sua spada sulla bilancia che pesava l’oro del riscatto pagato da Roma per allontanare i barbari, gridando “Vae victis!”[4]. Nel racconto di Livio il console plenipotenziario Marco Furio Camillo si oppose al pagamento e predispose il contrattacco. Le cose cambiarono poi con la vittoria di Caio Giulio Cesare in Gallia su Vercingetorige leggendario capo dei Galli Arverni (battaglia di Alesia Settembre del 52 a. C.).
Il monumento a Vercingetorige ad Alesia progettato da Viollet le Duc commissionato da Napoleone III nel 1865. Il giovane capo degli Arverni, giustiziato dai Romani con il garrottamento rituale nel trionfo di Cesare nel 49 a.C è rimasto un eroe nella storia della Francia moderna
Di questa storia si hanno tracce leggendarie, mitologiche nelle tradizioni orali e nelle opere di Sallustio, Polibio, Tucidide, Livio[5] e dati più precisi nelle moderne analisi linguistiche dei dialetti che hanno formato la lingua italiana, nei quali si trovano tracce di tedesco, francese, spagnolo, greco, arabo, slavo, latino, e qualche radice ugro-finnica e transiberiana. In origine, quella che divenne la lingua italiana di Dante, era il dialetto di Siena e di nessun altro luogo in Italia. Una sintesi delle varie lingue parlate nella penisola, che documenta le radici multietniche e multiculturali dell’Italia, si trova in Wikipedia:
Per affinità etnico-linguistica, si è soliti considerare sia i Latino-falisci che gli Osco- Umbri come appartenenti alla famiglia linguistica italica. Questi due gruppi di popolazioni, come l’osco, i dialetti sabellici, l’umbro, il latino, il siculo ecc. sono stati successivamente suddivisi in due distinti rami indoeuropei, chiamati lingue italiche occidentali (Latino-Falisco) e lingue italiche orientali (Osco-Umbre), ipotizzando che derivino da due distinte migrazioni indoeuropee.Le popolazioni di lingua indoeuropea giunte nella penisola si sarebbero sovrapposte a quelle più antiche, di origine neolitica, oppure si mescolarono a esse, dando origine ai gruppi Osco-Umbri, ai Latini e loro affini, ai Siculi in Sicilia.
Le antiche popolazioni dell’Italia contemporanea nel loro complesso possono classificarsi in:
di lingua preindoeuropea (le lingue di alcune di queste popolazioni sono documentate da iscrizioni, mentre su altre le informazioni sulla lingua sono ricavate da onomastica e toponomastica) che sono:
gli Etruschi, i Liguri, gli Euganei, i Reti, i Camuni, i Sicani e i Sardi (suddivisi in Iolei, Balari – questi forse di lingua indoeuropea – e i Corsi).
di lingua indoeuropea, a loro volta differenziati per:
Appartenenza alla famiglia italica (delle popolazioni latino-falische e osco-umbre si hanno abbondanti informazioni riguardo alla lingua e alla religione):
Gli Iapigi (di probabile origine illirica e suddivisi in Dauni, Peucezi e Messapi), i Veneti, i Rutuli (di origine ignota), i Celti (Boi, Cenomani, Senoni, Orobi, Leponti, Carni, ecc.), i coloni Greci della Magna Grecia e delle altre colonie greche in Italia (Italioti, Sicelioti).
La connotazione multietnica e multiculturale del Paese rimane forte durante il potere di Roma. Roma federava, dopo la conquista, con legami civili, fiscali, amministrativi e di alleanze nei conflitti con altre potenze. La conquista poteva essere dura e le guerre crudeli, ma, dopo la conquista, la gestione romana era civile, logistica e amministrativa. Le tradizioni locali erano rispettate e su queste si sovrapponeva l’ordine, l’organizzazione, lo ius romano. Le culture, i costumi, le tradizioni locali, regionali, urbane rimanevano in essere, con grande vantaggio del regime federativo. Le famiglie benestanti parlavano (anche) latino, ma la gente manteneva la lingua del luogo.
Nella figura geopolitica dell’Italia medievale e rinascimentale il senso della intelligenza amministrativa romana rimane evidente: ogni città mantiene la sua autonomia culturale come memoria della “federazione” romana.
L’Italia unico Paese Europeo con una millenaria storia multietnica che non si può ignorare. Una storia che va rispettata e considerata come condizione attuale. Forte premessa per guardare all’Europa con precisa e specifica competenza. Eravamo ”europei” da secoli, non possiamo dimenticarlo.
L’Italia nel Medioevo e nel 1600: il Regno d’Italia del Sacro Romano Impero di Federico II, poi Regno di Napoli degli Angiò Francesi e poi degli Aragona Spagnoli (1442-1501) degli Asburgo austriaci (1713-1734) e poi dei Borbone (1735-1759), unica realtà territorialmente significativa nella penisola. La Savoia francese. Milano longobarda, quindi spagnola e poi austriaca. Solo Venezia rimase sempre Venezia Repubblica Serenissima, la vera capitale storica, finanziaria e mercantile italiana, e libera fino alla conquista, senza battaglie, di Napoleone Bonaparte (1807).
Nell’Italia medievale e rinascimentale resta la traccia delle “federazioni” dell’antica Roma, e la penisola si polverizza in decine di “città, comuni, municipi, principati, ducati, baronie, marchesati, signorie” piccoli stati autonomi governati da aristocrazie e famiglie di origine nobile, mercantile, finanziaria (principi, duchi, marchesi, baroni, dogi, signori).
Caratteristica strutturale, fino all’unificazione piemontese del 1870, è la frammentazione e la connotazione dell’Italia come congerie e di autonomie locali: ogni entità con la sua moneta, le sue misure, la sua legge, le sue tasse, la sua lingua, il suo “capo” (duca, principe, conte, vescovo, marchese, barone, capitano), le sue milizie, le sue gerarchie e le sue burocrazie e la specifica, distinta cultura. Ancora oggi Napoli non è Milano, Venezia non è Torino e Roma è Roma. Strutture territoriali e culture consolidate da qualche decina di secoli che l’unificazione Sabauda non ha annullato o superato, nonostante la presunzione risorgimentale, vantata dalla storiografia ufficiale. Presunzione che è stata radicalmente ridimensionata dagli storici post-unitari e contemporanei.
L’attuale pressione per il consolidamento delle autonomie regionali, la spinta delle culture locali per la rivalutazione dei dialetti e del loro insegnamento nei curricula scolastici, la competizione antagonista fra le regioni e il loro atteggiamento “assertivo” rispetto al Governo centrale, sono tutti segnali della permanenza, non proprio subliminale, di questa cultura. Un dato di fatto che non si può ignorare.
La frase: “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani”,spesso attribuita al Conte Camillo Benso di Cavour, appartiene invece a Massimo D’Azeglio, è ancora attuale ed è evidente in molte situazioni difficili, oggi in emergenza, in cui sono forti i conflitti e le tensioni, sia sociali che politiche, fra le periferie e fra le periferie e il centro romano.
L’Italia dei primi anni del Regno Unito sotto i Savoia.
Poco venne fatto dalla gestione della monarchia piemontese per superare la frammentazione italiana ereditata dal Medioevo e dalle originali federazioni della Repubblica e dell’Impero di Roma antica. In particolare, nulla con Torino Capitale. È documentata l’insofferenza del resto della Penisola nei confronti del potere e della burocrazia piemontese. Insofferenza politica e culturale in Toscana, Emilia e a Roma, che invece nell’Italia meridionale (Basilicata, Calabria, Campania e Sicilia) si espresse in una aperta ribellione. I ribelli vennero qualificati dai piemontesi come briganti e la ribellione, provocata dalla brutale arroganza dell’esercito sabaudo, venne repressa con durezza in molti casi criminale: documentati, ma ignorati dagli storici risorgimentali, i massacri di interi villaggi da parte dell’esercito piemontese. Episodi che non facilitarono il processo di integrazione nazionale e spinsero invece le passioni di autonomia e di indipendenza verso ulteriore radicamento, consolidando le strutture mafiose già naturalmente insediate in quei territori.[6] Nessun miglioramento del problema con il trasferimento della Capitale da Torino a Firenze e da Firenze a Roma: i burocrati torinesi trasferiti e le loro famiglie parlavano rigorosamente Piemontese[7] e risiedevano, isolati, nei loro quartieri (ghetti piemontesi).
Il tentativo nazionalista del ventennio fascista
Mussolini conosceva il problema e la storia riporta numerose sue battute per denunciarlo, spesso arroganti e irritate. Le sue iniziative per risolverlo erano di colore, di propaganda e di forma superficiale, mai di sostanza. Il saluto fascista, le divise dei gerarchi, la camicia nera, le divise dei balilla, i littoriali della cultura fascista, le adunate oceaniche. Nonostante la pesante insistenza sui concetti di “patria” e di “nazione”, nella scuola, nella politica, nella propaganda del regime, i due concetti rimasero patrimonio, spesso superficiale e di figura, della cerchia ristretta del regime, e non vennero mai riscontrati dal grande pubblico che, per l’irritazione contro la pesante propaganda, rimase scettico. Un antico, saggio, ancorché gretto costume italico.[8]
La vittoria nella Prima Guerra Mondiale, sanguinosamente conquistata, anche grazie agli alleati francesi e inglesi, non valse all’affermazione del sentimento nazionale. La gestione dell’elite militare sabauda-piemontese, la tragedia della sconfitta di Caporetto, non aiutarono l’affermazione di un sentimento nazionale. Dalla “vittoria negata” nasce la ribellione di Gabriele D’Annunzio e l’embrione del fascismo, che, comunque, non era un sentimento nazionale, ma una forma di scapigliatura settaria di una ristretta elite culturale.
La sconfitta e la tragica fine della Seconda Guerra Mondiale (in parte riscattata dalla Resistenza e dalla Guerra Civile dopo l’8 Settembre 1943), la condotta disastrosa della guerra da parte dei generali e dell’elite militare fascista[9], la drammatica impreparazione militare e logistica, il tradimento della Casa Reale Savoia, marcano in modo pesantemente negativo il concetto nazionale. La Patria sono i carabinieri che fucilano chi si ritira dalle trincee indifendibili, sono le scarpe di cartone nella steppa russa gelata, le baionette contro i carri armati ad El Alamein, la vergognosa complicità con il genocidio di Hitler, ancora oggi ipocritamente taciuta dalla nostra storiografia ufficiale, conforme e condizionata.[10]
Patria e nazione nella cultura repubblicana dal 1945 ad oggi
Nella successiva cultura dell’Italia democristiana ogni espressione di sentimento nazionale, per disistima antifascista, viene marcata, in particolare dalla sinistra intellettuale e politica, con il termine derogativo di “patriottarda”. Atteggiamento che rimane forte ancora oggi. I tentativi del Governo di Giorgia Meloni di ricreare un sentimento nazionale non sembrano partecipati dall’opinione pubblica. Il concetto di “nazione”, promosso dai post-fascisti al potere, non ha speranze di grande successo e porta il peso di un marchio storico negativo.
Ma non è quella la sola ragione della debolezza e della attuale incongruenza del concetto “nazionale”, che non è mai stato effettivamente acquisito e partecipato dagli Italiani. La “nazione”, nel contesto europeo, e in un Pianeta “globale”, è un concetto obsoleto, una identità priva di significato. Sulla base di una identità imprecisa, sotto molti aspetti eticamente equivoca per la storica responsabilità del fascismo e del nazismo, senza sapere chi siamo e da dove veniamo, è impossibile sapere dove vogliamo andare, con chi e come. Ecco la ragione della nostra confusa politica europea, pasticciata con l’adiacenza ambigua al sovranismo populista di Visegrad e gli incerti atteggiamenti atlantici della signora primo ministro. In questo ambito è necessario e urgente fare chiarezza, possibilmente nel rispetto della storica tradizione atlantica dell’Italia.
Il cittadino italiano prima di essere italiano è milanese, romano, veneziano poi lombardo, laziale, veneto, dove le prime connotazioni, urbane e regionali, sono molto più importanti della connotazione “italiana” (patriottarda). Pochi si sentono prima “italiani” poi “regionali” o “cittadini”. L’Italia è distante, la regione e la città sono immediate e vicine, quando il milanese parla, parla con l’accento milanese, se non addirittura (fino a pochi anni fa) nel dialetto di Milano. Il suo senso di vivere in un luogo in un momento è il senso di vivere a Milano, oggi.[11] Non in Italia, e tantomeno in Europa. Lo stesso vale per i torinesi, i romani, i veneti e per tutte le altre regioni e città della Penisola. Un sentimento particolarmente acuto nell’Italia insulare: Sardegna e Sicilia.
Ecco perché lo slogan “prima gli italiani” è l’emblema significativo e velenoso della visione riduttiva sovranista. Una contraddizione letale: la verità deve essere “prima gli europei” e, di più, “prima i cittadini del mondo”. Le uniche condizioni per garantire, davvero, l’altrimenti sciocco, gretto, demagogico “prima gli italiani”.
Un concetto che non è solo difficile da capire, ma fuori da qualunque categoria comprensibile per l’elettore populista attuale. Una conseguenza storica ineludibile e non una colpa. E non serve studiare.[12]
Per questo devo rivedere e devo riconoscere il mio errore per gli innumerevoli scritti polemici con i quali ho qualificato come “responsabilità” e seria “lacuna culturale” la incapacità di comprendere dell’attuale cultura politica detta populista.
Chi non ha gambe non può imparare a camminare, e “non avere gambe” non è una colpa.
Il corollario di questa condizione è che si tratta di un problema che va risolto nel quadro europeo e planetario e non esclusivamente italiano. Un serio limite culturale della attuale classe dirigente politica, che impedisce la comprensione delle dinamiche culturali, macroeconomiche, sociali e politiche alla scala europea in un Pianeta strutturalmente interconnesso.
Alla luce di quello che si sta verificando oggi è chiaro che l’Europa è stata concepita molto prima della cultura necessaria alla sua comprensione da parte dei suoi abitanti e quindi indispensabile per la sua gestione e governo: la cultura necessaria non è quella dell’avanguardia di pochi isolati visionari, ma quella diffusa e partecipata dei milioni di elettori.
Una cultura che ancora oggi non si è formata, e poco si è fatto per formarla.
I padri fondatori avevano chiara quell’utopia, ma erano una avanguardia isolata, questo è chiaro oggi alla luce di quello che sta succedendo.[13]
Per uscire dalla palude La condizione preliminare ineludibile per ogni percorso di recupero di qualità etica e culturale della situazione sociale e politica italiana è il riconoscimento della nostra storica consolidata struttura sociale multietnica e multiculturale. Deve essere abbandonata come antistorica, irreale e inapplicabile ogni velleità nazionale. L’Italia non è una “nazione”, non lo è mai stata e probabilmente non lo sarà mai in futuro quando sarà integrata in un contesto europeo multietnico e multiculturale. La presunta risorgimentale identità “nazionale” è stata sempre un ostacolo e un problema, la piattaforma multietnica e multiculturale è una base molto più naturale e immediata dalla quale innescare la dialettica e un dialogo coerente con il resto del mondo sarà più facile e diretto.
Abbandonare la presunzione risorgimentale e il falso orgoglio nazionale che non ci è mai appartenuto e il bagaglio “patriottardo” obsoleto, riconoscere la valenza potenziale dell’identità multiculturale e adottarla come base e strumento di apertura coerente verso il mondo che è per sua natura multietnico e multiculturale.
Gli strumenti
La lacuna culturale di una classe dirigente e la scarsa maturità politica di gran parte di un corpo elettorale sono problemi che richiedono interventi e strategie di emergenza nel breve termine e contemporaneamente impongono strategie e azioni sistematiche di lungo termine. È necessario impedire l’innesco di un ciclo involutivo perverso. La scuola e i media sono gli strumenti fondamentali che fino ad oggi sono catastroficamente mancati.
Sia la scuola che i media sono peraltro inutilizzabili nella loro attuale condizione.
La scuola media produce generazioni di soggetti acritici e conformi e, dopo quaranta anni di riforme demagogiche, affollata da insegnanti dequalificati assunti ope legis, è appiattita su paradigmi ipocritamente egualitari che rendono impossibile applicare la necessaria meritocrazia[14]. Domina la istituzionale tutela dei soggetti deboli con il conseguente sacrificio dei cervelli migliori. I deboli vanno tutelati e assistiti, ma questo non deve comportare l’appiattimento verso il basso di tutta la popolazione scolastica. Come invece oggi avviene.
Peggiori sono le condizioni dell’insegnamento superiore. I licei Classico e Scientifico, un tempo vanto internazionale della Pubblica Istruzione italiana, stanno per essere sacrificati da riforme di metodologia didattica e programmatiche che in realtà ne umilieranno i contenuti formativi e culturali. Non si vede in questo governo, e nemmeno in quelli di un difficile ritorno della sinistra, la probabilità di recupero della qualità della Pubblica Istruzione. Sono facili i cambiamenti verso la dequalificazione demagogica, il recupero (metodi, meritocrazia e programmi) dopo i disastri conseguenti sono pressocché impossibili. Si veda cosa è successo all’Università italiana dopo l’illusoria primavera del 1968.
I media, stampa e televisione, sono dominati da lottizzazione feroce. Nei giornali, quotidiani e settimanali, poche testate e pochissime firme si salvano dall’asservimento e, comunque, sono poco frequentate dal grande pubblico che viene imbesuito dai cosiddetti social media: una gazzarra di scatenata, incontrollata imbecillità. Il danno prodotto sulla cultura generale del pubblico è catastrofico.
Con queste premesse ipotizzare un plausibile recupero richiede un forte ottimismo. Di seguito descrivo una linea propositiva della difficile rivoluzione a venire.
L’emergenza di breve termine
Deve essere predisposta una campagna di informazione finalizzata alla educazione e alla informazione dell’elettorato sui problemi principali e sulle priorità del Paese:
la necessità dell’immigrazione per contrastare la crisi demografica
strategie per l’immigrazione (tutela in Libia e Tunisia, salvataggio in mare, accoglienza, assistenza sanitaria, educazione-formazione-integrazione) sul breve, medio e lungo termine.
economia, controllo del debito pubblico, regime fiscale e sua riforma, iniziative per incentivare il risparmio, investimenti prioritari
necessità ineludibile di un positivo rapporto con l’Europa
insegnamento professionale dell’inglese a tutti i livelli del percorso scolastico
Strategie di medio lungo termine
formazione di un profilo europeo nei programmi scolastici a tutti i livelli
insegnamento professionale dell’inglese a tutti i livelli del percorso scolastico
elementi base di una sensibilità macroeconomica ed economica della complessità di un mondo interconnesso nei programmi della scuola superiore
elementi di strategie di lungo termine per il recupero di un Pianeta sostenibile nei programmi della scuola media e superiore
la politica estera di un paese europeo: economia, ambiente, immigrazione nei programmi delle scuole superiori.
Elementi di progettazione di scenari futuri nei programmi delle scuole superiori
Il governo deve istruire norme severe per regolamentare i talk-shows televisivi e imporle alle televisioni private e di Stato. Chi grida, usa linguaggio abusivo, interrompe gli interlocutori o i moderatori, deve essere interdetto dalla partecipazione a dibattiti televisivi. Una sola infrazione provoca l’interdizione sine die. Deve essere istituito un comitato interpartitico per istruire le denunce e sancire le interdizioni. I moderatori settari e abusivi sono soggetti alle stesse norme. La libertà di parola è un diritto che non giustifica né ammette insulti, volgarità, aggressioni fisiche o verbali degli interlocutori.
Più difficile ipotizzare una linea di controllo dei social media, il confine di questo controllo con lo spazio della libertà di espressione è a rischio, ma il problema va affrontato perché la situazione attuale è sicuramente tossica. Potrebbero servire algoritmi di controllo molto sofisticati, analoghi al chatGPT, per individuare e bloccare le aberrazioni in quell’enorme territorio.
Quale classe politica
Solo un elettorato competente, maturo e informato può esprimere con il voto una classe dirigente politica competente e capace.
I partiti politici devono istituire scuole di formazione dei quadri con corsi triennali. Solo i quadri che frequentano i corsi di formazione e superano gli esami finali possono candidarsi nelle elezioni politiche e amministrative. Il suffragio universale va assistito con verifiche della competenza e della cultura generale degli elettori. Il diritto di voto è un privilegio che comporta la responsabilità di sapere cosa si vota, lo Stato deve predisporre gli strumenti che consentano ai cittadini di assumersi con competenza questa responsabilità. L’esercizio del voto è obbligatorio. Chi non vota, avendone diritto, è soggetto a pena amministrativa proporzionale al suo reddito da stabilire con apposita legislazione.
Conclusione
La breve riflessione suggerisce iniziativa politica radicale e sicuramente impossibile per il governo attuale (Premier Giorgia Meloni, partiti Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) e molto probabilmente difficile anche per futuri governi di sinistra o centro sinistra. Ma le tendenze in atto nel Paese, di dequalificazione politica e culturale, sono catastrofiche e questo significa che, nella futura drammatica emergenza, qualche iniziativa si imporrà, comunque.
Meglio prepararsi che subire l’approssimazione dell’emergenza.
L’Italia non è un paese disponibile a sanguinarie rivoluzioni, ma cambiamenti radicali non sono impossibili e si sono verificati nella nostra storia.
L’ultima rivoluzione tentata e abortita negli anni 1970 fu quella delle Brigate Rosse: venne stroncata, prima che dai Carabinieri del Generale Dalla Chiesa, dalla violenta grossolanità dell’ala armata delle BR. Se le BR non avessero travolto i movimenti di estrema sinistra, scegliendo la strada degli omicidi, un impegno radicale per il cambiamento (già allora di evidenza drammaticamente necessaria), avrebbe avuto l’appoggio di gran parte dell’opinione pubblica progressista e avrebbe probabilmente acquisito buone probabilità di diventare iniziativa politica realizzabile o, quantomeno, di inserirsi fattivamente nella dialettica plausibile.[15]
Educare l’opinione pubblica, promuovere iniziative coerenti, essere presenti nel dibattito politico, denunciare la stupidità e l’incultura, sono tutte iniziative che possono rendere possibile il cambiamento indispensabile.
Premessa ineludibile: conoscere per cambiare.
Lorenzo Matteoli
[1]“…Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade…” Dante, Paradiso Canto XVI
Dal quale traggo: “La dimensione traumatica del brigantaggio permette di comprendere i ritardi e le dinamiche della storiografia sul fenomeno, non a caso assurto a oggetto di studio scientifico quando, all’indomani della Prima e poi della Seconda guerra mondiale, profonde crisi politiche e morali sembrarono scuotere dalle fondamenta gli assetti istituzionali fissati dal processo risorgimentale. Negli ultimi anni, il rinnovamento della storiografia sul Mezzogiorno appare coinvolgere – talvolta per replicare alle polemiche revisioniste – anche lo specifico tema del brigantaggio.”
[7] A Torino, come a Venezia e in tutte le importanti città italiane, nelle famiglie nobili, e della buona borghesia si parlava il dialetto “còlto” ancora negli anni 1920-1930. Sui cantieri torinesi degli anni 1930 gli architetti e gli ingegneri parlavano rigorosamente in piemontese alle maestranze per avere la certezza di essere capiti.
Nell’esercito sabaudo gli ufficiali parlavano francese o piemontese, non l’italiano.
[10] A questo proposito conviene ricordare una famosa battuta di George Orwell: “If liberty means anything at all it means the right to tell people what they do not want to hear.” “Se la libertà significa qualcosa, allora significa il diritto di dire alla gente le cose che non vuole sentire.”
[11] Secondo la definizione di “cultura” di Immanuel Kant come “il senso di vivere in un luogo in un momento”.
[13] Due italiani (Altiero Spinelli e Alcide De Gasperi), due francesi (Jean Monnet e Robert Schuman), un tedesco (Konrad Adenauer), un lussemburghese (Joseph Beck) e un belga (Paul Henri Spaak).
[14] Un concetto che la sinistra conforme non ha mai compreso: per gestire l’uguaglianza è necessario riscontrare le differenze.
[15] Testo emendato rispetto alla prima versione per accogliere l’osservazione di Gianvincenzo Fracastoro (cfr matteolilorenzo.blog)
Nel tentativo, tardo e goffo, di recuperare credibilità dopo il criminale pasticcio dell’abbandono di 200 naufraghi in mare il primo ministro ha convocato un CdM a Cutro.
Sono andati i ministri nelle loro limousine governative in Calabria per essere insultati dalla popolazione indignata. Hanno ignorato le bare dei naufraghi per aumentare la dose di insolenza.
Il primo ministro Meloni, con non poca vaghezza geografica, ha assicurato che il Governo “andrà a cercare gli scafisti in tutto l’orbe terracqueo”. Basterebbe il Canale di Sicilia e la rotta turca, e forse è già troppo.
Il resto della riunione degli arroganti boy-scout al governo è stata la conferma della loro distanza dalla realtà delle cose. Hanno inasprito le pene per gli “scafisti”, come se questi fossero i responsabili della tragedia planetaria in corso, e non gli attori ultimi e minori: per quanto deprecabili e criminali fanno un mestiere e rischiano. Alla prossima riunione i nostri boy-scout fisseranno multe e pene per i costruttori dei fuoribordo usati dagli scafisti. La logica coranica che seguono è chiara: senza quei motori gli scafisti non potrebbero commettere il reato di supporto alla immigrazione clandestina…ergo…
Ci si chiede fino a quando il governo italiano e i governi dell’Europa continueranno ad affrontare il problema nel Canale di Sicilia, quando questo è radicato nei paesi di origine dei migranti e nella catena di operatori che li conduce fino ai campi di tortura e stupro finanziati dall’Italia in Libia, per poi lasciarli alla mercè dei banditi della Guardia Costiera libica, di nuovo finanziata dall’Italia. L’evasione sistematica e progettata dalle responsabilità sembra essere l’unica strategia della quale il governo italiano e quelli europei sono capaci.
Bisognerebbe:
Impedire che partano con finanziamenti strutturali di lungo termine nei paesi di origine.
Se partono e arrivano in Libia e in Tunisia
organizzare campi di accoglienza attrezzati, civili, dotati di scuole, corsi di formazione e assistenza sanitaria
gestiti da personale europeo
e non da stupratori e torturatori libici e tunisini pagati dai governi europei
Se affrontano il Canale di Sicilia
impedire che cadano nelle mani dei banditi delle Guardie Costiere libica e tunisina.
Se arrivano in Italia o in Europa
accoglierli, educarli, formarli, integrarli.
Perchè?
Per il semplice e impellente motivo che l’Italia e l’Europa, in crisi demografica catastrofica, di quei migranti hanno urgente bisogno.
Non è difficile da capire: il futuro dell’Europa post-industriale dipende dalla disponibilità di manodopera e l’unica manodopera disponibile per questo futuro è quella fornita dai migranti. A fronte di questo problema, di lungo termine e di immediata necessità di intervento, l’unica cosa che i nostri demagoghi populisti al governo riescono a concepire sono misure poliziesche e ostacoli burocratici per favorire naufragi e aumentare il numero degli affogati nel Canale di Sicilia. Per poi celebrare i risultati con vergognose dimostrazioni come il CdM a Cutro e inasprire le pene per gli scafisti (e in futuro, con logica coranica, per i costruttori di motori fuoribordo). Cos’altro ci possiamo aspettare dalla gretta logica populista?
La ABC (Australian Broadcasting Corporation) ha recentemente mandato in onda un documentario sugli abusi sessuali su minori nelle Filippine. Una delle madri è stata intervistata e ha spiegato che doveva ricorrere allo sfruttamento dei figli per mettere loro del cibo in bocca. Ha sottolineato che molti genitori in questa posizione sono in condizioni di estrema povertà e vedono questa come l’unica soluzione per nutrire le loro famiglie. Le Filippine sono un paese cattolico. Poiché la Chiesa cattolica è nota per essere una delle organizzazioni più ricche del mondo, sicuramente può intervenire e fornire sostegno finanziario a queste famiglie colpite dalla povertà. Consentire che tali atrocità abbiano luogo quando gli aiuti finanziari possono essere facilmente forniti è vergognoso. (Il controllo delle nascite sarebbe un’altra soluzione, ma la Chiesa cattolica ha un atteggiamento assurdo su questo problema e dovrebbe assumersi la responsabilità delle sue tragiche conseguenze).
The ABC recently aired a documentary on child sex abuse in the Philippines. One of the mothers was interviewed and explained that she had to resort to exploiting her children in order to put food in their mouths. She emphasised that many parents in this position are suffering extreme poverty and see this as the only solution to feeding their families. I understand that The Philippines is a Catholic country. As the Catholic Church is known to be one of the richest organisations in the world, surely they can intervene and provide financial support to these poverty-stricken families. To allow such atrocities to take place when financial aid can easily be provided is despicable. (Birth control would be another solution but the Catholic Church has a very unhelpful attitude towards that and should take responsibility for its tragic consequences).
L’immagine del Presidente Mattarella a Crotone: una tragica, severa ammonizioneai ministri assenti
Meloni fa una accusa ipotetica senza senso. Nessuno pensa che qualcuno nel governo abbia voluto lasciar morire i migranti a Cutro. Ma i migranti sono morti. La rete di norme, vincoli, priorità, interpretazioni, definizione di competenze, barocca, controversa, pasticciata impostata dai ministri Toninelli, Salvini, Conte, Piantedosi, è la causa della tragedia. Non c’è una volontà specifica identificabile, c’è una disgustosa cultura di viscosità burocratica, della confusione di competenze, delle priorità, condizioni e vincoli, che il governo Meloni ha in parte impostato, in parte evitato di dirimere e chiarire che ha provocato il non intervento della Guardia Costiera. Una cultura voluta, ricercata e imposta. In questa cultura i migranti sono i nemici, se affogano è colpa loro. Questo è l’atteggiamento che ha condannato i poveri profughi afgani. L’Italia, in drammatico calo demografico, lascia affogare l’immigrazione che potrebbe salvarla dalla fuitura prevista catastrofe demografica. Con l’arroganza irresponsabile di ministri che per poche migliaia nei voti di elettori più ignoranti e razzisti di loro.
L’unica strategia che è stata concepita sul problema dei migranti dagli ultimi governi. Arbitrio e vessazione, complicità con gli stupratori libici. Ma soprattutto stupida, cieca demagogia. Misure indegne di un paese civile, nell’indifferenza, o, peggio, con l’approvazione di elettori manipolati da media e ministri dominati da squallida demagogia. Questo è il campo che i magistrati dovranno chiarire. Sicuramente di questa cultura è responsabile il Governo e, con il Governo, quelli che lo hanno votato. La nostra Guardia Costiera, che ha salvato centinaia di migliaia di migranti, candidata al Nobel per la Pace nel 2017, è stata costretta all’inazione dal groviglio di regole che il Governo Meloni ha in parte impostato, in parte, lasciato crescere e vivere. Non c’è una volontà specifica, c’è un atteggiamento politico-culturale chiaramente espresso e rappresentato dalle irresponsabili dichiarazioni del Ministro Salvini e del Ministro Piantedosi che si leggono come implicita ammissione di vergognosa responsabilità. È inutile che il Presidente del Consiglio dei Ministri farfugli ipotetiche domande senza senso per evitare di assumersi le responsabilità che un Capo di Governo non può evadere con furba dialettica bottegaia. Quella stessa cultura è ben rappresentata dalle decisioni del Ministro di mandare le navi ONG con i naufraghi ad Ancona e a Livorno costringendole a spese, giorni di navigazione e ad allontanarsi dal loro campo di intervento: una decisione punitiva emblematica della cultura puerile, vendicativa e arrogante, tipica di quel ministro. Coerente matrice del quadro politico e operativo che ha provocato la tragedia di Cutro.
Questo episodio resterà nella storia come una vergogna per tutto il Paese.
Lorenzo Matteoli
ci sono ancora, oggi 6 Marzo, decine di dispersi che forse non verranno mai trovati.
Non voto perché tanto non cambia nulla: non votando promuovi il cambiamento peggiore
Analisi del voto: quale voto? L’analisi del voto conviene farla fra qualche settimana, ma qualunque risultato andrà moltiplicato per 0,4 (il 40% quota percentuale dei votanti rispetto agli aventi diritto al voto). Il risultato della moltiplicazione ci informerà che la coalizione che ha vinto rappresenta circa il 13-14% degli aventi diritto al voto[1]. Se c’è da dubitare di una democrazia espressa da maggioranze del 60-70% degli aventi diritto al voto, una democrazia governata da maggioranze espresse dal 15% scarso rispetto al numero degli aventi diritto al voto è sotto il limite del ragionevolmente accettabile. Chi non vota condanna il Paese a governi di fatto illegittimi. Ammesso che siano legittimi regimi eletti dall’80-90% degli aventi diritto al voto manipolati dai media e dall’informazione avvelenata. Impugnare il diritto di voto universale è causa pateticamente perdente. Il coraggio per affrontare questo problema “in avanti” non è nemmeno un’ipotesi nell’attuale cultura politica.
La crisi esistenziale del Partito Democratico (anticamente PCI) Come sia impossibile per un partito con tradizione storica emi-secolare, sia di governo che di opposizione, (Il PD), individuare una linea programmatica moderna e progressista che possa interessare e convincere il 40% dell’opinione pubblica è una domanda che non trova risposta nelle migliaia di scritti, dichiarazioni, posizioni, manifesti dei suoi dirigenti dove intelligentissime analisi si incrociano con analisi ancora più acute e intelligenti, e tutte inutili. Aspetteremo ancora, precongressi, congressi, manifesti, dichiarazioni e appelli. L’unico aspetto positivo di questa tornata elettorale regionale è l’ulteriore passo verso l’estinzione dei 5Stelle oramai ovviamente irrilevante politicamente per tutti meno che per il suo risciacquato presidente. Per dare un’idea della confusione che regna nel PD: molti in quel partito ritengono che allearsi con i 5Stelle sia una mossa vincente. Affogare aggrappandosi a un salvagente di piombo.
Lorenzo Matteoli
[1] Trascurando il dettaglio imbarazzante e pericoloso che due leader dei trec partiti della coalizione sono amici personali e ammiratori di Putin del quale rappresentano volontà e opinione in aperto e vergognoso contrasto con la linea dichiarata e confermata del Primo Ministro e del Governo
Stanno succedendo cose importanti nella scuola italiana e in particolare nel campo dell’istruzione superiore: licei Classico e Scientifico e loro riforma/evoluzione. I curricula dei licei verranno superati da “indicazioni nazionali” che fra poco diventeranno “regionali”. I singoli Istituti produrranno PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa) che saranno concepiti con lo scopo principale di attirare iscrizioni e quindi tagliati sull’appetibilità ludica del mercato (di potenziali studenti) più che sulla qualità della didattica e dei contenuti (materie). Niente esami, niente valutazioni, niente verifiche: una scuola facile e piacevole dove studiare non è una necessità.Agguerriti e convinti innovatori, più dilettanti che professionisti, propongono formule didattiche rivoluzionarie dove gli aspetti grammaticali e logistici tendono a cassare la dimensione umana del rapporto tra docenti e studenti e la fondamentale importanza del profilo etico/culturale del “maestro”. Lascio i dettagli all’interesse dei miei lettori che potranno trovare in rete abbondante documentazione. Mi interessa invece analizzare il fenomeno in un quadro sociale e politico più ampio che è quello del “populismo” come tendenza di fondo nell’attuale “mainstream” storico. I movimenti del 1968 (Berkeley, Kent University, Parigi, Milano, Roma) morti nella variante terroristica fallita negli anni ‘70 e ’80, sono sopravvissuti sottotraccia come generico qualunquismo demagogico (il nome è populismo) che ha raccolto un successo politico che ha avuto il suo culmine nei primi anni del 2000 e che non sembra essere ancora oggi (2023) in via di esaurimento. Sotto l’emblema positivo dell’innovazione si sta realizzando una dequalificazione sistematica degli studi superiori (High School negli Stati Uniti, Grades eight to twelve nel mondo anglosassone, Licei in Francia e Italia, Hochschule in Germania). Lo scopo cinico si basa sulla assunzione che la futura società informatica e informatizzata (ChatGPT like) avrà bisogno di molti epsilon minus e pochi alfa plus[1]. La scuola pubblica si sta quindi attrezzando per produrre epsilon minus. Gli alfa plus saranno prodotti da altri cicli e istituzioni (private o pubbliche), costose, fortemente selettive (elitarie). Masse acritiche di followers disponibili all’uso, divoratrici di festival della canzone e di campionati di calcio organizzate da funzionali “influencer”, controllate da competenti e professionali élites padronali privilegiate. Questo, secondo me, quello che sta succedendo nelle Istituzioni della Educazione Superiore nel Mondo Occidentale[2], chi si oppone viene opportunamente filtrato dal “sistema”.
Lorenzo Matteoli
A World of epsilon minus
Important things are happening in the Italian school and particularly the field of higher education – classical and scientific high schools and their current reform/evolution.
The curricula of high schools will be superseded by “national indications” which will soon become “regional”. The individual Institutes will produce PTOF (Three-Year Plan of the Educational Offer) which will be conceived with the main purpose of attracting enrolments and therefore tailored to the playful attractiveness of the market (of potential students) rather than on the quality of teaching and content. There will be no exams, no evaluations, no tests: an easy and pleasant school where studying is optional.
Fierce and convinced innovators, more amateurs than professionals, offer revolutionary teaching formulas where practical and logistical aspects tend to override the human dimension of the relationship between teachers and students and the fundamental importance of the profile and ethical/cultural competence of the “maestro”.
I leave the details to the interest of my readers who will be able to find abundant documentation online.
I am interested in analysing the phenomenon in a broader social and political framework which is that of “populism” as a basic trend in the current historical “mainstream”.
The movements of 1968 (Berkeley, Kent University, Paris, Milan, Rome) which died in the failed terrorist disaster in the 1970s and 1980s, have survived under the radar as uncommitted demagoguery (aka populism) that granted a political success in the first years from 2000 and which does not seem to be fading now (2023).
Under the positive emblem of innovation, a systematic disqualification of higher education is taking place (High School in the United States, Grades eight to twelve in the Anglo-Saxon world, Lyceums in France and Italy, Hochschule in Germany).
The cynical political scope is based on the assumption that the future IT and computerised society (e.g. ChatGPT) will need many ”epsilon minuses” and few “alpha pluses”.
The public school is therefore gearing up to produce a consistent number of “epsilon minuses”. The “alpha pluses” will be produced by other expensive, highly selective (elitist) cycles and institutions (private or public).
Uncritical masses of followers ready for use, devouring song festivals and football championships organized by functional “influencers”, controlled by competent, privileged elites.
In my opinion, this is what is happening in the Higher Education Institutions of the Western World, those who oppose it are properly filtered by the “system”.
Lorenzo Matteoli
Translation by Google Translate edited by LM and Wendy Charnell
Lidia Tar, eccezionale direttrice d’orchestra, si prepara a dirigere la Berliner Philarmonic Orchestra nella Sinfonia n. 5 di Gustav Mahler. Seduce e domina giovani fanciulle orchestrali mentre la materna primo violino della Berliner, che con lei convive more lesbico, tollera (fino a un certo punto) la sua sregolata genialità. La dirigenza della BPO invece non tollera il comportamento non conforme della geniale ed eccezionale direttrice e la licenzia. Tar viene sostituita nella conduzione della Quinta sinfonia di Mahler, si rifugia a Bangkok dove finisce la sua carriera di geniale direttrice di orchestra dirigendo musiche per film di squallido ordine commerciale.
Questa, in sintesi, la vicenda narrata dove la parte di Cate Blanchett (bellissima comunque) occupa più del 95% delle due ore e trentotto minuti del film.
Senza questo mio “bignamino” farete fatica a riconoscere il racconto nella criptica regia/montaggio di Todd Field (che ha anche scritto il soggetto). La narrazione è infatti frammentaria, accidentale, lenta, confusa, interrotta da lunghi monologhi di Tar, con brevi interventi dei suoi interlocutori: polpetttoni noiosissimi di luoghi comuni e banalità pseudo-intellettuali, sulla musica, sull’arte di dirigere un’orchestra, su Mahler, su Bernstein, Furtwangler et al. Dialoghi supponenti basati su “name dropping” finalizzati a comunicare quanto brava e quanto intelligente sia la protagonista.
Cate in tutto il film non suona mai, ma spesso si siede al pianoforte per picchiare qualche nota con un dito, evocando, per gli adepti virtuali, monumentali sconosciute sinfonie.
Lo spettacolo è teso: nel senso che lo spettatore cerca, per tutto il film, di capire cosa succede. In effetti per tutto il film non succede nulla e anche i momenti clou del dramma (seduzione di giovinette, abbandoni, licenziamento e sostituzione di Tar, triste conclusione a Bangkok) sono serviti in un brodo narrativo grigio e banale, assolutamente piatto, annacquato, per buona misura, dalla logorrea musicologica della protagonista. Un vero monumento cinematografico del parlarsi addosso.
Dopo i primi dieci minuti di logorrea si aspetta il riscatto, la svolta, il colpo di regia, e si continua ad aspettare fino al trentottesimo minuto della terza ora.
Quando si esce ci si fanno domande che non hanno risposte.
Pochi critici avranno il coraggio di qualificare il film come va qualificato, noioso, lento, contorto, logorroico, banale.
Irritante e supponente.
L’unica cosa che lo riscatta: la bellezza surreale di Cate Blanchett.
Lorenzo Matteoli
TAR:A NON MOVIE
Lydia Tar, exceptional conductor, prepares to conduct the Berlin Philharmonic Orchestra in Symphony No. 5 by Gustav Mahler. During this time she seduces and dominates young female members of the orchestra while the maternal first violin, who lives with her in a lesbian menage, tolerates her unruly genius (up to a certain point). The management of the BPO, on the other hand, does not tolerate the non-conformist behaviour of the brilliant and exceptional director and fires her. Tar is replaced for the conducting of Mahler’s Fifth Symphony. She takes refuge in Bangkok where she ends her career as a brilliant international conductor directing music scores for squalid commercial movies.
This, in short, is the story told where the part of Cate Blanchett (who is always beautiful) occupies more than 95% of the two hours and thirty-eight minutes of the movie.
Without this “abstract“, you will have a hard time recognizing the story in the cryptic direction/editing by Todd Field (who also wrote the story). The narration is, in fact, fragmentary, slow, confused, interrupted by long monologues by Tar, with brief interventions by her partners: very boring clichés and pseudo-intellectual platitudes, on music, on the art of conducting an orchestra, on Mahler, on Bernstein, Furtwangler et al. Conceited dialogues based on “name dropping” aimed at communicating how good and how intelligent the leading carachter is.
Cate never plays the piano throughout the film, but she often sits at the piano to tap a few notes with one finger, evoking unknown monumental symphonies for the virtual adepts.
The narration is tense: because the viewer tries, throughout the film, to understand what is happening. In fact, nothing happens throughout the movie and even the key moments of the drama (seduction of young girls, abandonments, Tar’s dismissal and replacement, sad conclusion in Bangkok) are served in a gray and banal fashion, absolutely flat, watered down, for good measure, from the musicological logorrhea of the protagonist.
After the first ten minutes, we wait for the redemption, the turning point, the director’s coup, and we continue to wait until the thirty-eighth minute of the second hour.
At the end, you’ll ask yourself questions that have no answers.
Few critics will have the courage to properly qualify the film as boring, slow, convoluted, talkative, trivial, annoying and conceited.
The only thing that redeems it, from a male point of view, is the surreal beauty of Cate Blanchett.
Lorenzo Matteoli
Mattia Giusto Zanon Commento a “Tar” Febbraio, 09, 2023 Da Harper’s Bazaar edizione Italiana
Nota di L. Matteoli: Per la corretta informazione dei miei lettori riporto un commento molto diverso dal mio del Film di Todd Field (e Cate Blanchett) “Tar” Mattia Giusto Zanon parte dall’assunto che il film è un”capolavoro indiscutibile”. Io parto dal concetto che il film è noioso.
Ed ecco Zanon: Perché dovrebbe interessarci un bio-pic oggigiorno? Tanto più se è un bio-pic inventato, e quindi appunto, di fatto non un bio-pic. La risposta è semplice: perché se c’è Cate Blanchett allora sì. E se la storia è come questa, ovvero come il regista Todd Field ammette di averla creata, su misura per l’attrice protagonista che aveva in mente, tanto che “o lei o nessun’altra”, allora sì. Perché allora si crea un film che è proprio come l’abito che il sarto newyorkese le prepara con cura maniacale, pezzo per pezzo, cucitura per cucitura nella scena iniziale, e che lei desidera per condurre, perché lo ha visto su una copertina di un vecchio vinile di Bernstein. Si crea qualcosa di unico.
Il cuore della pellicola è il personaggio di Lydia Tár, che Blanchett regge sulle sue spalle per due ore filate. È un’ipotetica direttrice principale della Filarmonica di Berlino – ma lo è stata anche della Boston Symphony e della New York Philharmonic – osannata da colleghi e sottoposti come “Maestro”. E non “Maestra” ci tiene a dire lei. Tár è appassionata, esigente, autocratica, con un prestigio da rockstar e uno stile di vita da tournée internazionale che si avvicina a quello dei super ricchi, fatto di jet privati, Porsche fiammanti e ville tutte beton-brutper niente brutte, tutto eleganza finto-distratta, quadri modernisti e fiori in vaso, veri, non di plastica. All’inizio la vediamo subito molto eccitata mentre si avvicina alla sua nuova sfida: una registrazione dal vivo di Mahler per la Deutsche Grammophon. Ha una relazione e convive col suo primo violino, interpretato da Nina Hoss, e assieme hanno una figlia, la piccola Petra, che Tár ama moltissimo. Stanno in un loft spettacolare, ma Lydia mantiene sentimentalmente il suo vecchio appartamento berlinese come ufficio, in cui ogni tanto fugge per scappare dai problemi.
L’idillio dura finché dura. “Lydia sa di essere giunta nell’Olimpo e quindi sa anche che qualsiasi suo passo successivo non farà altro che condurla nell’abisso. Ne è certa”, racconta Cate Blanchett in conferenza stampa. Ci sono vari problemi nella vita di Tár. Gestisce un programma di borse di studio di tutoraggio femminile, amministrato da un aspirante direttore d’orchestra pedante e appiccicoso – Mark Strong -, e si vocifera che questa sia una fonte di giovani donne con cui Tár, che è omosessuale, abbia relazioni. La sua assistente, interpretata da Noémie Merlant – un altro aspirante direttore d’orchestra – sembra essere qualcun altro che lei sta tenendo su un filo emotivo, mentre è perseguitata da un’altra ex allieva che è diventata ossessionata da lei. Per non farsi mancare nulla, si invaghisce anche di una giovane violoncellista russa povera in canna appena giunta per un provino alla Filarmonica. Nel frattempo, la sua masterclass alla prestigiosa Juilliard va terribilmente male quando Tár litiga con un giovane studente, che si identifica come “pangender”, e rifiuta categoricamente di avvicinarsi a Bach per motivi ideologici. Quando Blanchett si siede a suonare il famoso Preludio in do maggiore, spiega la musica in un modo commovente tanto quanto la musica stessa. Sta cercando di far capire che rifiutare un autore simile, bollandolo come “il solito vecchio maschio bianco”, è un’assurdità pura e semplice. È uno spreco. Ma il video della sua lezione verrà montato ad arte per farle dire cose che non ha mai detto, e spiattellato su Twitter come una piccola ma potente vendetta GenZ.
Per tutto il tempo, Tár sospetta che ci sia qualcosa che non va: è nervosa, paranoica e insonne. Eppure talmente carismatica e sicura del fatto suo da conquistare, da farci cadere tutti ai suoi piedi come quando disquisisce di un particolare passaggio di un brano, o dell’importanza dell’esecuzione di un direttore d’orchestra come Leonard Bernstein piuttosto che di un altro. E di tutta l’umanità e la passione racchiusa nel pentagramma, come quando ragiona sul rapporto tra Gustav Mahler e sua moglie Anna, e su come questo abbia influenzato la composizione della sua grandiosa e romantica Sinfonia N. 5.
I personaggi di Tár si percepiscono fin da subito reali come lo è la vita. Sono recitati in modo ricco e perfetto fino al più piccolo ruolo. Si crede, in ogni momento, alla realtà che si sta vedendo, ed è straordinario come questo aumenti la posta in gioco. Lydia è come un saliscendi, talvolta è molto forte talvolta è molto debole. E se la performance di Blanchett all’inizio sembra un po’ teatrale, quello di cui ci rendiamo presto conto è che la stessa Lydia sta recitando, adattando il suo personaggio alla moda di New York o europea a seconda della situazione, ricucendo pensieri e aneddoti che ha raccontato dozzine di volte e che danno forma alla sua sostanza. Una delle attrazioni di Tár è infatti proprio il suo ritratto di Lydia come un modello intellettuale sofisticato, alto, inarrivabile, una scultura che si è creata come una sorta di marchio. Quello di studiosa appassionata che vive e respira per le partiture che dirige.
Eppure c’è un aspetto della vita di Lydia che comprensibilmente tiene più occultato, ma è ben presente: le donne con cui apparentemente ha tresche continue. Come altro non fossero che una piccola parentesi concessa all’ombra del suo genio. Si auto-assolve in continuazione, ma a volte si condanna lei stessa. Ma allora come si colloca questa pellicola e una figura come Lydia Tár ogg? La risposta è che forse questa volta dovremmo sospendere il giudizio, per renderci conto che siamo in un nuovo mondo. Uno in cui niente è lineare, molte “giuste cause” si sposano per convenienza, e in cui le persone indossano maschere. Tutti punti che Tár solleva e porta in scena rasentando la perfezione.
Ed ecco Matteoli su Zanon: La review di Harper’s Bazar parte dal presupposto del “capolavoro indiscutibile”. Io sono partito dalla constatazione del film noioso e irritante. Harper’s Regala a Todd Field quello che il film avrebbe potuto dire se non fosse stato viscosamente noioso, impestato dalla logorrea supponente del dialogo e da una struttura narrativa nevrotica di irritante impossibile lettura…. Purtroppo al cinema è letalmente vero che l’immagine è il messaggio. La confezione è il messaggio. Un poeta noioso, più che poeta è noioso e irritante. End of story. Tutte le cose che racconta Harper’s forse ci sono nel film, ma sono massacrate dalla “confezione”. Ho letto con molto interesse la review di Harper’s: bella, ma come ha fatto a sfuggirgli la noia? Comunque Cate Blanchett da sempre mi ha sconquassato l’anima. (LM)
Molti in Italia sanno, ricordano, riflettono sulla vergogna e l’infamia che ha macchiato il Paese complice di Hitler. L’Italia fascista di Mussolini è stata responsabile senza attenuanti del più orrendo crimine commesso in Europa nel secolo ventesimo.
Molti in Italia non sanno, non ricordano. Molti non vogliono sapere e non vogliono ricordare.
Molti, con criminale arroganza, negano la accertata verità storica.
Molti di coloro che non vogliono sapere e che negano appartengono e sostengono il partito che oggi è al Governo del Paese.
Gli episodi, i gesti e le manifestazioni di antisemitismo sono correnti nella cronaca italiana.
Le Pietre di Inciampo, cementate nei marciapiedi della città di fronte alle case delle vittime dell’Olocausto Italiano, con i nomi e le date del loro arresto e del loro assassinio, costringono a ricordare, a riflettere.
Non siamo la “brava gente” che una storia compiacente descrive, negando vergogna e responsabilità. Ci sono stati delatori prezzolati italiani, aguzzini italiani, poliziotti italiani al servizio delle leggi infami: il catalogo dell’orrore.
Non basta una Giornata della Memoria: la riflessione su questa vergogna nazionale, sulle orrende ideologie che l’hanno istruita e condotta, sugli uomini e sulle donne esecutori e complici, deve far parte dell’identità culturale nazionale (fra di noi ci sono quelli che…) perché una simile infamia non possa ripetersi.
Lorenzo Matteoli
Many in Italy reflect on the shame and infamy that has stained the country as Hitler’s accomplice. Mussolini’s Fascist Italy was responsible, without extenuating circumstances, for the most horrendous crime committed in Europe in the twentieth century.
Many in Italy do not know, do not remember. Many don’t want to know and don’t want to remember.
Many, with criminal arrogance, deny the documented historical truth.
Many of those who do not want to know and who deny, belong to and support the party which is now ruling the country.
Signs of anti-Semitism are current in the Italian daily news.
The Tripping Stones, cemented in the sidewalks of cities in front of the houses of the victims of the Italian Holocaust, with the names and dates of their arrest and their murder, force us to remember.
We are not the “good people” that a complacent narrative portrays, denying our shame and responsibility. There have been Italian paid informers and Italian torturers. Italian militia enforcing infamous laws: the catalog of horror.
A Remembrance Day is not enough: reflection on this national shame; the horrendous ideologies that instructed it about the men and women who imposed them, must be part of the national cultural identity (among us there are those who…), so that such shame cannot be repeated.
Sono preoccupanti le notizie che vengono dal mondo della scuola: violenza in classe, bullismo e aggressioni contro gli insegnanti, genitori che aggrediscono gli insegnanti che si permettono di richiamare all’ordine i loro figli, studenti ubriachi in classe …
Un malessere diffuso in tutto il Paese e, a quanto sembra, diffuso anche in altri paesi europei.
Ci si chiede l’origine di questa malattia sociale delle nuove generazioni e ci si chiede quali strumenti e quali iniziative da parte della classe dirigente (sociale e politica) possano essere prese per intervenire sul fenomeno.
In termini molto generali si può dire che il fenomeno sia conseguenza di una generale caduta di autorevolezza della classe dirigente (sociale e politica) del paese.
Non sono credibili i nostri rappresentanti politici, non ha credibilità né autorevolezza la generazione che dovrebbe esercitare controllo e indirizzo sulle generazioni giovani.
Se va individuata una responsabilità sociale e generazionale il problema sembra radicato nella generazione tra i 30 e i 50 anni. Quelli che sono nati tra il 1970 e il 1990 e che sono stati educati dalla scuola italiana tra il 1985 e il 2005 e quelli che sono stati educati tra il 2005 e il 2015.
In quel tratto di tempo è chiaro che i “valori”, il rispetto degli Istituti, il rispetto degli “altri” e del “pubblico”, non sono stati elementi “forti” della comunicazione didattica e formativa della scuola italiana. Direi anzi che erano proprio i valori oggetto di forte contestazione negli anni 1960-1970.
Con facile e opinabile moralismo si potrebbe dire che “chi semina vento raccoglie tempesta”, ma l’ipotesi è comunque degna di qualche attenzione.
L’insofferenza attuale nei confronti degli insegnanti, l’ostilità nei confronti degli Istituti, l’arroganza dei genitori nei confronti degli insegnanti dei figli, sono l’immagine speculare del populismo in politica, dell’insofferenza nei confronti della “competenza”, della demagogia come matrice politica, del puerilismo amministrativo emblematicamente rappresentato dalla cultura degli eletti 5Stelle e più in generale della sindrome politica che viene connotata come “populismo”. Con termine meno nobile, e più c corretto, si tratta di banale demagogia
Il rispetto degli “altri” del “sociale”, degli “Istituti”, la competenza, sono elementi insostituibili della Democrazia. Quando questi elementi strutturali vengono dequalificati l’intero edificio dello Stato Democratico è a rischio, se non è già compromesso.
La domanda è come si ricostruisce la credibilità e l’autorevolezza generazionale (politica e sociale) che è stata dequalificata?
Certo non esercitando “autorità” e utilizzando “potere”. Perché l’”autorità” e il “potere” esercitati da soggetti poco credibili peggiorerebbero la situazione di degrado e aumenterebbero le situazioni critiche.
“When good men and good women do nothing, bad things happen.”
Bisogna ricominciare da zero. Ci salveranno i nonni? …prima di estinguersi…
Forse è opportuno scrivere in italiano corrente quello che sta succedendo nel Governo Meloni.
Un ministro della Giustizia (Nordio) incapace di vedere (per ovvia soggezione al partito e al Capo del Governo), di denunciare una mostruosa evidenza e di operare di conseguenza.
Ecco il fatto: il suo vice Delmastro (FdI) si dichiara responsabile di aver divulgato informazioni segrete relative alla complicità possibile tra Crimine Organizzato ed Estremismo Anarchico, complicità finalizzata alla istruzione di disordini e azioni contro un ordinamento dello Stato (41 Bis “Carcere duro” per terroristi e mafiosi). Le due entità (Mafia e Anarchia) sono notoriamente capaci e sono state responsabili di organizzare e compiere attentati con decine di vittime. Il Ministro Nordio chiamato a rispondere dell’azione del suo vice balbetta interpretazioni false (dichiarando “sensibili” documenti in realtà coperti da “segreto” dal DAP) e trincerandosi dietro una inchiesta della magistratura in corso, dove la responsabilità politica è dichiarata, senza ombra di dubbio, dallo stesso Delmastro.
L’onorevole Donzelli (FdI Vice Presidente del Copasir l’organismo del Governo responsabile dei servizi segreti) ricevuta l’informazione dal collega di partito Delmastro la usa, citando, nel suo intervento in Parlamento, la lettera del documento ricevuto dal Delmastro e propone faziosamente una connivenza del PD (il PD è con lo Stato o con la Mafia e l’Anarchia?). Questo sull’assurda base della visita di ufficio in carcere di una delegazione del PD finalizzata ad accertare le condizioni di salute dell’anarchico e terrorista Cospito, accertamento che ha poi determinato il trasferimento del medesimo nel carcere di Opera, attrezzato per gestirne le condizioni mediche precarie.
Donzelli dichiara il falso asserendo che l’informazione ricevuta non è segreta ma è disponibile a tutti i membri del Parlamento, dichiara inoltre di avere agito dopo avere informato il primo Ministro Meloni.
Il Ministro Salvini dichiara di non vedere alcuna irregolarità nel comportamento di Delmastro e Donzelli.
Il primo Ministro Giorgia Meloni che, di fronte alla mostruosa evidenza dell’aggressione agli Istituti della Repubblica del Ministro Nordio, del vice Ministro Delmastro e dell’Onorevole Donzelli Vice-Presidente del Copasir, avrebbe il dovere di imporre le dimissioni del Ministro Nordio, del vice Ministro Delmastro e del Vice-Presidente del Copasir Donzelli e, quantomeno, una netta rettifica dell’avallo governativo espresso dal Ministro Salvini. Invece Giorgia Meloni, su tutta la vicenda, tace, limitandosi a dire, in una telefonata a un talk show televisivo che l’attacco del Cospito, della Mafia e dell’Anarchia è contro lo Stato e non contro il governo. Su Nordio, Donzelli, Delmastro: silenzio.