Le radici profonde della crisi FIAT

Le radici profonde della crisi FIAT
Lorenzo Matteoli
18 Settembre 2012

Pubblicato su Legno Storto

Il comunicato con il quale la Fiat ha annunciato che intendeva rivedere il progetto Fabbrica Italia ha scatenato la piazza mediatica italiana: giornali e televisioni si sono buttati sulla questione e poche sono state le voci obbiettive e ragionevoli. Il populismo demagogico ha vinto. Tutti si sono scatenati senza peraltro conoscere le implicazioni del comunicato e le vere intenzioni della FIAT e di Sergio Marchionne. Fra le pochissime voci ferme e obbiettive apprezzabile il pezzo di Davide Giacalone su Legno Storto.
Sul coro sguaiato spicca lo sciacallaggio indecoroso di Diego della Valle, incoraggiato con poche riserve da Gad Lerner: un attacco settario e incivile che lascia sospettare interessi diversi da quelli che il Della Valle insiste nel voler definire come “giusta indignazione di un cittadino italiano”. Veleno, demagogia, falsificazione della realtà, accanimento verbale, il tutto in un brodo di ipocrisia e viscoso moralismo: questa in sintesi la marca dell’intervento del Della Valle all’Infedele di ieri sera sulla 7. Nessuna considerazione per la situazione del mercato nazionale e internazionale dell’auto, nessuna considerazione per le obbiettive difficoltà create da un “mercato del lavoro” che condanna le imprese italiane, nessuna considerazione per le incertezze del futuro quadro politico italiano nel quale la FIAT dovrebbe investire decine di miliardi per i prossimi dieci o venti anni. Diego della Valle, imprenditore globale nel settore delle scarpe, di automobili sa poco, ma questo non modera i suoi giudizi, e la citazione di Apelle di Coo viene subito alla mente: “ne supra crepidam sutor (iudicet)”.
L’intervista del direttore Mauro a Sergio Marchionne su La Repubblica di oggi ristabilisce in qualche modo il senso delle cose: traspaiono dall’intervista il moralismo demagogico e bigotto di Mauro e la rigidità svizzera canadese dell’Amministratore Delegato della Fiat, ma anche la sua chiarezza. In particolare si comprende come la gazzarra scatenata dal comunicato della Fiat sia partita senza nessuna conoscenza delle intenzioni della azienda e delle sue strategie: tutti hanno dato per scontato che la Fiat “se ne sarebbe andata” e si sono lanciati nell’invettiva. Dice Marchionne mille cose sono cambiate dopo la proposta di Fabbrica Italia: il crollo del mercato dell’auto, le difficoltà del mercato del lavoro, la conflittualità sindacale. La Fiat perde in Italia settecento milioni di Euro all’anno compensati dai guadagni sulle altre piazze produttive. Non ci sono prospettive di ripresa prima del 2014. Investire in Italia in queste condizioni e con queste prospettive sarebbe un suicidio con danni molto maggiori per le maestranze, per l’azienda e in ultima analisi per il Paese. La Fiat resta, ma deve adottare una strategia di difesa: damage control.
Ho sempre criticato la FIAT: a mio avviso il management post vallettiano della Fiat è sempre stato inadeguato culturalmente e politicamente prima ancora che sul piano tecnico. Gianni Agnelli un principe distratto con interessi lontani da Torino e dall’azienda e ancora più lontani dall’Italia. La crisi della Fiat era prevedibile e prevista fin dal 1992 indipendentemente dai successivi eventi della finanza globale e del mercato dell’auto. Il peggiore fra tutti gli amministrratori delegati dell’Azienda è stato Cesare Romiti che, grazie alle sue abilità “romane”, ha consolidato la dipendenza dell’azienda dalla protezione statale italiana, castrandone la capacità di innovazione e la vera competitività sui mercati, ignorando che la condizione assoluta per vincere sarebbe stata la qualità delle auto e privilegiando con arroganza i traffici di sottogoverno. La reliability è una condizione vincolante sul mercato Americano ed Europeo. Le auto della Fiat da sempre sono in fondo a qualunque classifica di affidabilità sulle riviste del settore. Non è un caso, ma è la logica conseguenza della cultura dei suoi managers, della cultura aziendale e della protezione della quale ha goduto da parte dei governi Italiani. Una protezione sistematicamente richiesta e ottenuta attraverso il ricatto occupazionale, garantita da tutti i partiti per ragioni di clientela politica e per motivi di scambio elettorale. I governi hanno le stesse responsabilità dell’azienda, senza l’attenuante della massimizzazione dei profitti.
Oggi i problemi della FIAT sono due (si fa per dire):1) il collasso del mercato dell’auto in Europa e in Italia, 2) la scarsa qualità del prodotto FIAT.
Poca la responsabilità di Marchionne sul collasso della domanda di auto nel mondo: la matrice di questa situazione va cercata nella rapina globale finanziaria Americana degli ultimi venti anni. Rapina che ha innescato la Grande Crisi Finanziaria nel 2006. Marchionne nel 2010, tracciando il quadro di “Fabbrica Italia”, è forse stato troppo ottimista nel ritenere che l’uscita dalla recessione fosse dietro l’angolo. Ma se fosse stato pessimista sarebbe stato aggredito e indicato come cassandra responsabile da chi ancora si ostinava a negare sia la crisi che la conseguente doppia recessione.

Sul problema della qualità del prodotto le responsabilità di Sergio Marchionne ci sono, ma sono solo relative, mentre sono pesanti quelle della gestione storica precedente dell’azienda e quelle dei sindacati. Marchionne pensava che per istituire una cultura della qualità alla Fiat sarebbero stati sufficienti pochi mesi di seminari aziendali e le consulenze di esperti giapponesi. E qui ha sbagliato: la qualità del prodotto è il risultato di un costume culturale radicato profondamente nei valori sia dell’impresa che degli operai. Un sistema di valori che in Italia non è mai esistito con la sola eccezione dell’Olivetti di Ivrea dei tempi gloriosi della Comunità di Camillo e poi di Adriano Olivetti.
Per la cultura operaia e per quella d’impresa italiana, in eguale misura, il rapporto tra industria e maestranze non è un rapporto di reciproca dipendenza, di reciproca utilità e rispetto. Per gli operai l’impresa è “il padrone” sfruttatore e prevaricatore, per l’impresa gli operai sono manovalanza da sfruttare. Un rapporto schematicamente antagonista che la Confindustria non ha mai cercato di moderare o di superare e che i sindacati hanno da parte loro egualmente coltivato e incoraggiato.
In questo terreno è nato lo Statuto dei Lavoratori: confronto duro, continuo e sistematico, basato fondamentalmente sul sospetto e sulla sfiducia reciproca fra le parti. La cultura della collaborazione, della mutua dipendenza e della reciproca utilità è lontana miglia da questa malsana tradizione. Così come è lontana dalla medesima la cultura dello svizzero canadese Sergio Marchionne. “In Italia l’altro non esiste.” Solo lo scontro fra due egoismi: l’onnipotenza arrogante contro l’onnipotenza arrogante. Una conseguenza tipica del modello di pensiero sociale maschile, spesso peraltro assorbito e applicato anche dalle rappresentanti femminili dei sindacati.
Evidente che in questo clima di prevaricazione padronale e di “lotta” dei sindacati è più facile che prenda piede il rifiuto, la ribellione latente o il boicottaggio, che non la collaborazione indispensabile a una strategia della qualità, e si comprende come fosse scontato il fallimento degli esperti giapponesi chiamati da Marchionne. Nella cultura dell’operaio italiano il vantaggio che potrebbe risultare all’azienda dal suo operare con rigore non è un valore apprezzato. Come nella cultura dell’impresa italiana non è un valore la costruzione di un rapporto sinergico e di collaborazione con gli operai.
Questo in un quadro di grande generalità nel quale ci sono evidentemente eccezioni, ma i risultati statistici ne dimostrano comunque la credibilità.
Significativa della visione gretta dei rapporti fra Governo e mondo delle imprese è la pretesa di molti commentatori che Monti convochi Marchionne per chiedere spiegazioni: un comportamento arrogante, deresponsabilizzante, più coerente con una dittatura che con una civile cultura di governo.
Ricordo molti anni fa nel 1978: visitavo una fabbrica giapponese nella zona industriale di Yokohama con una delegazione di industriali italiani del settore metalmeccanico. Sopra ogni tornio c’era un cartello, ben leggibile, scritto con gli ideogrammi giapponesi. Tutti gli operai, con i guanti di cotone bianchi immacolati, lavoravano a ritmo stakanovista in completo silenzio. L’interprete fu molto imbarazzato quando gli chiedemmo cosa ci fosse scritto sui cartelli, di fronte all’insistenza spiegò che sui cartelli c’era scritto “Io sono in sciopero”. Un esempio del rispetto per il lavoro della cultura operaia giapponese e della capacità di distinguerlo dal confronto sindacale con l’azienda. L’interprete ci spiegò che il cartello era una cosa gravissima una vergogna per la direzione della fabbrica: la rappresentazione simmetrica dello stesso rispetto.

Informazioni su matteolilorenzo

Architetto, Professore in Pensione (Politecnico di Torino, Tecnologia dell'Architettura), esperto in climatologia urbana ed edilizia, energia/ambiente/economia. Vivo in Australia dal 1993
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Una risposta a Le radici profonde della crisi FIAT

  1. matteolilorenzo ha detto:

    Riporto dal Legno Storto il commento di Ursus al mio pezzo:
    Cinismo, presunzione e ignavia.

    I tre ingredienti principali del dramma industriale ed economico, presto anche sociale, italiano sono in larghissima parte riconducibili a questo.

    Cinismo: quello del lavoratore, pronto ad approfittare di ogni occasione per lucrare qualche cosa in più del previsto, senza pensare all’impatto sull’azienda; quello dell’azienda, pronta a sostituire ogni lavoratore quando il rapporto costo/prestazioni lo consigli.
    Cinismo dei politici e dei sindacalisti: pronti, i primi, a violentare il mercato per accaparrarsi voti e a mantenre, i secondi, uno stato di scontro permanente e di deformazione dei mercati e delle regole pur di giustificare la propria stessa esistenza.
    Cinismo dei media, pronti a quasi tutto per una copia o un centesimo d’audience in più.

    Presunzione, poi, tanta, diffusa a tutti i livelli. Quella del capufficio o del “caporale” che gode della propria posizione di comando senza curarsi dei propri sbagli, anzi celandoli accuratamente; quella dei dirigenti e dei manager, convinti oltre ogni ragionevole dubbio (eh già, il dubbio….) delle proprie idee e delle proprie capacità; ma presunzione anche ai livelli più bassi della scala gerarchica: dall’operaio che viola scientemente le regole – anche quelle sulla sicurezza – all’impiegato che modifica l’ordine di evasione delle pratiche per fare favori o sentirsi importante.

    Ignavia. Molti, troppi quelli che per “quieto vivere”, indifferenza, pavidità, scarsa percezione dei problemi e delle conseguenze degli altrui comportamenti, girano la testa dall’altra parte rifiutando di mettersi in gioco per una realtà ed un futuro migliori.

    Una minestra indigesta, potenzialmente esplosiva, caro Matteoli.
    E presto ne raccoglieremo gli amari frutti

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