Lorenzo Matteoli
13 Maggio, 2013
Nota: con riferimento all’articolo di Gianni Pardo “La capra i cavoli e Italia”
Il debito del Giappone è del 230% del PIL. Il PIL Giapponese non cresce da 15 anni a questa parte. Nessuno si permette di evocare una possibile bancarotta del Giappone o un suo possibile default. Il debito italiano è del 130 % del PIL e il nostro PIL non cresce dal 2007: meno di sei anni. L’ipotesi della bancarotta dell’Italia e del default è invece una ipotesi corrente e proposta con incredibile disinvoltura o con pesante pessimismo. Un’altra delle letali immagini che ci impediscono di recuperare la realtà. Ovviamente si dirà che Giappone e Italia hanno poco in comune come storia, cultura, struttura industriale, economia e antropologia. Ma i numeri sono quelli e le valutazioni sono quelle.
Le basi teoriche dell’austerità e del rigore che indicavano nel 90% del PIL il limite invalicabile del debito pubblico pena la catastrofe sono state recentemente smantellate e il Giappone è la dimostrazione concreta della loro inconsistenza. Forse ci avrebbero dovuto pensare Carmen Reinhard e Ken Rogoff, quando hanno scritto il loro saggio sbagliato Growth in a time of Debt.
Con il che non è opportuno incoraggiare all’aumento del debito e allo scialo: al contrario è urgente e necessaria una strategia di radicale taglio degli sprechi, dei privilegi fiscali e delle clientele parassitarie che si sono incrostate sul sistema italiano negli ultimi quaranta anni di finanza demagogica e irresponsabile di tutti i governi con solida continuità da sinistra a destra e ritorno. Deve essere disegnata, inventata, una strategia di uscita dal ciclo perverso dell’indebitamento. Questa non può dipendere dall’aumento della pressione fiscale che soffoca il ciclo virtuoso del denaro e deve essere disegnata al di fuori delle categorie che hanno a suo tempo innescato quel ciclo perverso. Si tratta di “un’altra macroeconomia”. Non sono i vecchi strumenti del monetarismo classico che risolveranno il problema, non sono né Keynes, né Taylor, né Adam Smith o Ricardo e tantomeno Karl Marx. Si può fare questa affermazione anche senza essere abilitati economisti: questi strumenti hanno già ampiamente dimostrato di essere inefficaci negli ultimi 5 anni ed è inutile insistere. La crisi è iniziata prima della globalizzazione delle dinamiche di scambio finanziario, queste dinamiche l’hanno aggravata e accelerata ed è nella revisione, nel controllo o nel superamento di queste dinamiche che si deve trovare una via risolvente.
Sono strumenti nuovi e diversi quindi.
Ecco il nodo: la moneta unica senza governo politico Europeo impedisce la ricerca di qualunque strumento diverso o nuovo e obbliga all’immobilità o a insistere con strumenti dimostratisi inefficaci. Riconoscere che l’enorme debito va risolto in venti o trenta anni, riconoscere che il debito non è la condizione unica e determinante della crisi, riconoscere che non è la soffocante pressione fiscale che lo può risolvere, riconoscere che l’enorme debito è una caratteristica delle politiche amministrative di molti Paesi degli ultimi quaranta anni (Germania, Francia, Inghilterra, Giappone, Stati Uniti), riconoscere che è in “un’altra macroeconomia” che si deve operare, sarebbero già passi avanti verso l’apertura di spazi diversi nei quali cercare la soluzione.
Una cosa è relativamente sicura: qualunque sia la soluzione che verrà trovata o che si imporrà, i prossimi venti o trent’anni saranno profondamente diversi come qualità di vita dai precedenti e sarà bene iniziare la profonda riflessione per la transizione e l’adattamento.
Forse è una barca con solidi portelli di separazione, forse sono due barche una al traino dell’altra, forse non è vero che si deve attraversare il fiume.
Forse non è un problema di capre, lupi e cavoli.
In cerca di scenari e stimoli alla riflessione, suggerirei la lettura di “Un mondo ottagonale”, di johan galtung ( https://serenoregis.org/2013/05/10/un-mono-ottagonale-johan-galtung/ )
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