Definizione di cambiamento

La definizione di cambiamento

Lorenzo Matteoli

23 Novembre 2013-11-13

 

 

 

Quando nel 1945 Winston Churchill, ancora eroe ma stanco e logorato dalla guerra vinta con enormi sacrifici, venne sconfitto dai laburisti di Clement Attlee, questi finalmente al governo si trovarono di fronte alla non facile responsabilità di gestire con ideali socialisti un Paese profondamente conservatore dove il “class system” dominava burocrazia, amministrazioni, esercito, giornali, scuole, università e ogni altro angolo della società. L’Inghilterra doveva diventare con loro una moderna monarchia socialdemocratica e progressista. Se questo concetto poteva esistere nella realtà inglese di quegli anni e se una monarchia di solida tradizione pluri-secolare poteva convivere con governi “socialisti.” Quello che i laburisti di quel tempo dovevano disegnare e innescare era un “cambiamento” radicale dove la saggezza della gradualità poteva diventare la “catastrofe del gradualismo[1] e dove l’entusiasmo e la fretta dei giovani ideologi radicali poteva provocare rotture insanabili nel complesso e impreparato tessuto connettivo della società inglese.

Eric Arthur Blair commentatore politico per molti giornali inglesi, che ancora non era noto come George Orwell autore di “Animal farm[2] e poi di “Nineteen eighty four” aveva seguito la campagna elettorale laburista per le elezioni generali inglesi dell’Agosto 1945 per conto delle testate di Lord Astor sulle quali scriveva ed era molto preoccupato perché si rendeva conto che molti elettori del Partito Laburista non erano pronti per un vero cambiamento, ma volevano solo che venissero adottate alcune specifiche migliorie: “Nella concezione popolare il Partito Laburista è il partito che vuole meno ore di lavoro, pubblica sanità gratuita, latte gratis per i bambini delle scuole, e altre simili cose, e non è il partito che vuole il Socialismo.”[3]  Cioè una società di eguali opportunità senza privilegi di casta o di classe, dove il potere è servizio e non arroganza poliziesca e corruzione. Orwell temeva che il conflitto fra gradualismo e fretta radicale  avrebbe potuto bloccare l’azione di governo o esporla a forti rischi di fallimento. I contrasti e le battaglie fra laburisti e conservatori continuarono per molti anni con alternarsi di governi conservatori e laburisti e ancora oggi la dialettica politica inglese affronta, con una coalizione dei due partiti, il percorso difficile di mediazione fra la visione “labour” e la visione “tory” della società.

Il “cambiamento” inglese non avvenne da un giorno all’altro e non bastò la prima esperienza di Clement Attlee, tornò Churchill, e poi MacMillan, Harold Wilson e molti altri, Tory e Labour, fino a Margareth Thatcher e alla attuale coalizione lib-lab.

Il vantaggio dei laburisti inglesi del 1945 rispetto alla situazione italiana attuale era che allora era abbastanza chiaro capire da dove si partiva e dove si voleva arrivare. Allora i due termini “Labour” e “Tory” in Inghilterra avevano ancora significato di “sinistra sociale” e “destra moderata”.

Ci sono altri eventi nella storia Europea recente che possono fornire qualche indicazione sul concetto di cambiamento e sulla sua pratica, sui successi e sui fallimenti: la Francia di Pierre Pflimlin e Charles De Gaulle, il Portogallo di Antonio de Oliveira Salazar e Marcello Josè das Neves Alves Caetano, La Spagna di Francisco Franco Bahamonde, Louis Carrero Blanco e Adolfo Suarez, le Germanie di Honecker e Kohl, di Weimar e Hitler, la Cina di Mao Tse Tung e di Deng Xiao Ping, la Unione Sovietica di Kruschev, Gorbachev, Yeltsin, Putin. Ogni esperienza specifica, storicamente originale e unica, ma tutte sono state caratterizzate da dinamiche di innesco, transizione e conclusione alle quali possiamo guardare con  interesse visto che a breve e inevitabilmente dovremo affrontare una esperienza analoga, anche se originale e specifica della nostra attuale situazione.

Un discorso particolare meriterebbero i “cambiamenti” italiani dal 1922 al 1948, Facta, Mussolini, Badoglio, Bonomi, Parri, De Gasperi: riporto i nomi dei soggetti politici per memoria e come riferimento per una riflessione generale che lascio a miei 12 lettori.

Oggi in Italia non è così chiaro capire cosa si intende con “cambiamento” o quale sia “l’altro verso” che si vorrebbe innescare. Tanto poco chiaro che il “cambiamento” viene invocato da tutti e da tutto l’arco ideologico confusamente definibile e identificabile nel teatro politico corrente. È  logico quindi che il termine, in difetto di chiara definizione, induca qualche sospetto e riserva. Ma osservando la attuale situazione del Paese non possono esserci dubbi: il cambiamento è necessario, urgente, improrogabile.

Già, ma quale? Quali priorità? Quali emergenze? Quale economia? Quale leadership? Quali partiti? Quali sindacati? Quali maggioranze? Quale burocrazia? Quale esercito? Quale polizia? Quali giornali? Quali televisioni?

Quali intellettuali? Quale cultura?

Quale è la matrice unificante, la sintesi delle sintesi, il bandolo della complicata e appiccicosa matassa? Da dove si comincia?

Penso che molti si stiano ponendo queste domande oggi in Italia, o forse mi illudo.

L’ambiguità dei cambiamenti è che quando avvengono la maggior parte della gente non li percepisce: distratti dal quotidiano, oppressi da altri problemi, distanti dalla politica, indifferenti, attraversano la storia che i loro figli e nipoti subiranno e studieranno sui libri di scuola. E che si chiederanno poi…come mai? Come la mia generazione si chiede rileggendo le cronache del fascismo.

Il pericolo da una parte è quello dei “tecnici” politicamente imbelli e spesso presuntuosi e, dall’altra parte, quello degli ideologi intellettuali, affascinati dal  potere e animati dalla mentalità del “commissario politico”. Il “cambiamento” va gestito con ferma competenza politica, gradualità e senza strappi, anche se alcune misure iniziali non possono evitare di essere drastiche in considerazione dell’emergenza aggravata di solito dalla nefasta zuccherosa camomilla ammannita dai precedenti governi che per demagogia hanno avuto paura di informare correttamente la gente e di inventare e prendere le iniziative urgenti capaci di risolvere la emergenza.

 

Una caratteristica che si trova quasi sempre come motivo di innesco di ogni “cambiamento” è l’inadeguatezza della classe dirigente politica in carica: i paesi alla deriva senza una leadership capace di interpretare il momento storico, la sua economia e la sua cultura. Come sempre la legge di Parkinson interviene e “l’azione occupa lo spazio lasciato libero dall’inadempienza”.

Qualunque azione: buona o cattiva, purtroppo.

L’altro motivo comune ricorrente è l’economia: dissestata, fuori controllo nei fondamentali per corruzione, leggerezza, avidità, demagogia, incompetenza, o del loro combinato disposto.

Molte altre possono essere le condizioni di innesco, ma quasi tutte si possono riportare a una categoria generale più complessa: la crisi di valori. Lo scadere del “progetto” sociale, l’appannarsi della “visione” di lungo termine, del “telos”. In sintesi: della assunzione di responsabilità nei confronti delle generazioni future. Una società senza scopi e senza obbiettivi si deprime, perde l’interesse esistenziale e da questa decadenza iniziano tutti gli altri cicli negativi. In una società senza obbiettivi, senza progetto anche gli individui perdono progetto e obbiettivi. Con la morte dell’Utopia non c’è più ragione di fare… e tutto diventa indifferente, quindi “…tanto vale.”[4]

 

Su questo vuoto si impone e si innesca il “cambiamento”.  Con la visione positiva di qualcuno o, nella malasorte, con la visione negativa di qualcun’altro.

Ecco dunque la priorità: il progetto, lo scopo sociale, la visione di futuro, e, soprattutto, la responsabilità per il debito trans-generazionale. La ragione di fare e l’urgenza di fare.

Questo va recuperato prima di tutto. Prima ancora dell’economia bisogna re-inventare, ricostruire, ridefinire una ragione di essere per l’economia, che non può essere l’economia stessa, acefala e cieca macchina finanziaria finalizzata all’arricchimento di pochissimi.

Il recupero del progetto e della visione di futuro richiede entusiasmo, affetto per la gente e il rarissimo dono di saperlo trasmettere e partecipare, senza imposizione, senza arroganza, senza violenza. Senza la “cultura del commissario”.

 

Una volta recuperati questi valori lo strumento economico sarà conseguente. È ovvio che l’Italia si trova in difficoltà con l’Euro e i suoi deformanti vincoli monetari. Non possiamo stampare moneta per allentare la morsa dei mercati, ma ci possono essere altre misure interessanti applicabili con qualche inventiva e fantasia. Il recupero dello “scambio di merci e servizi” (baratto) ad esempio potrebbe sostituire la liquidità mancante e diminuire la necessità di moneta corrente per l’economia domestica e generale. L’Argentina è uscita dai suoi incubi economici anni fa con il ricorso al baratto assistito dalla informazione diffusa oggi gestibile con internet. Sarebbe anche interessante vedere cosa potrebbe significare l’uso del debito dello stato (buoni del tesoro) come strumento di scambio. Usare i titoli di stato come moneta corrente: quale implicazioni macroeconomiche potrebbe avere e potrebbe questa essere una risposta alla impossibilità di stampare moneta? Quali vincoli ci sarebbero per misure di questo genere nei confronti dei nostri impegni europei? Mi piacerebbe l’opinione di Giavazzi, Alesina o di Mario Deaglio su questo genere di problemi.

 

Sicuramente l’intervento sui “valori” dovrebbe trovare un  forte appoggio nella burocrazia, nella scuola e nei media che oggi in Italia sono prigionieri di gabbie ideologiche particolari e che sono i principali luoghi responsabili di quella che Orwell chiamava la “mentalità del grammofono” e che indicava come l’ostacolo primo al “cambiamento”.

Tutto vero, ma la potenza delle idee vincenti è imprevedibile e la capacità di traino dell’entusiasmo delle giovani generazioni che ritrovassero il “senso del vivere in un luogo in un momento[5] senza artefatte, finte, conculcate e spesso sciocche “primavere”, ma per responsabile presa d’atto, è una forza dell’umanità che la storia non ha mai smentito.

 

 

 

 

 

 


[1] George Orwell, “Catastrophic GradualismCommonwealth Review, Novembre 1945.

[2] George Orwell rimase molto sconcertato dalla interpretazione che molti critici avevano dato al suo “Animal Farm” come di una allegoria semplicemente “anticomunista”: nella sua intenzione il libretto (un opera di eccezionale intenso significato ancora oggi) era una denuncia della deriva stalinista del socialismo liberal e della tragica, spesso sanguinosa arrogante stupidità, che caratterizzava quella deriva. Stupidità e arroganza ancora oggi latenti in molte frange della sinistra. Orwell aveva partecipato alla Guerra di Spagna come entusiasta socialista e aveva assistito sconcertato prima e disgustato poi al terrorismo poliziesco voluto dai Commissari del Partito Comunista Sovietico contro tutti i membri di organizzazioni antifasciste e non comuniste che venivano arrestati torturati e spesso uccisi come “trozkisti”. Orwell ferito gravemente al collo ad Aragon riuscì a fuggire prima di essere arrestato dai comunisti che controllavano la Repubblica Spagnola in Catalogna (così si chiamava il fronte anti Franco). Fu proprio quell’imbecillità totalitaria che provocò lo sbandamento del fronte antifascista e che alla fine portò Franco alla vittoria. Il Partito Comunista Italiano fu complice silenzioso e in molti casi per viltà dei “compagni” parte attiva del terrorismo dei comunisti PCUS in Spagna: una esperienza che ebbe un rigurgito in Italia negli anni 70 quando il PCI definiva i terroristi delle Brigate Rosse “compagni che sbagliano”.

[3] George Orwell “British Struggle for Survival”, Commentary,  Ottobre 1948.

[4] Cfr Karl Mannheim “Ideologia e Utopia”;

[5] La splendida definizione di “cultura” di Emanuele Kant

Informazioni su matteolilorenzo

Architetto, Professore in Pensione (Politecnico di Torino, Tecnologia dell'Architettura), esperto in climatologia urbana ed edilizia, energia/ambiente/economia. Vivo in Australia dal 1993
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