Noi del Carducci eravamo diversi

Noi del Carducci eravamo diversi,

ancora sul libro di Claudio Martelli

Lorenzo Matteoli

28 Gennaio, 2013

 

Ero a Torino alla presentazione del libro di Claudio Martelli al Circolo dei Lettori di Via Bogino il 22 gennaio, in una sala troppo piccola per accogliere tutti i socialisti torinesi che per l’occasione si sono ritrovati. Nostalgia, affetto, abbracci, il calore del pensiero comune e il magone per l’occasione storica perduta. Non abbiamo cantato “L’Internazionale” come si faceva una volta, ma è stato un momento intenso, con una venatura di amarezza. Questo almeno è quello che io ho percepito, ma credo sia stato condiviso da molti. Qualcuno si è anche commosso, come era giusto, in effetti. Claudio, sempre molto lucido nella sua sintesi, con tratto di elegante garbo ha voluto rispondere alle domande dei compagni e io gli ho proposto la mia che più o meno suonava così: “Si legge bene il libro, da copertina a copertina, chi ha vissuto quegli anni nel Partito Socialista non può non apprezzarlo per la passione, l’affetto e i sentimenti che ancora scaldano la prosa e i ricordi. Sempre quando si legge la storia di anni vissuti si prova un senso di meraviglia e stupore: la sintesi in qualche centinaio di pagine di trenta, quaranta, cinquanta anni di vita vissuta è una provocazione forte. Una cosa traspare dal racconto di Claudio Martelli, una tesi implicita: in quegli anni la nostra generazione ha posto le basi di quello che sta succedendo oggi e di quello che è successo dopo la fine del Partito Socialista di Craxi e Martelli. E non possiamo essere contenti. L’errore complessivo di quegli anni ha generato il mostro che abbiamo davanti. La mia domanda: abbiamo sbagliato certo, ma come esattamente? e oggi come si esce da questo tunnel?”

Claudio ha detto “Alla domanda di Matteoli, la più difficile, risponderò alla fine…”

Ma alla fine, come era logico, la risposta non c’è stata, certo nascosta nella decina di altre risposte, e Claudio se l’è cavata così.

La critica che ha fatto su questo sito Dino Cofrancesco è un grande contributo, “alto” si diceva una volta, di chiarezza concettuale al dibattito: tutta la vicenda raccontata da Martelli si snoda nella dialettica tra un Partito Comunista ancora legato ai suoi dogmi stalinisti e togliattiani che Berlinguer cerca di svegliare dal “sonno della ragione” per portarlo verso le praterie della socialdemocrazia di matrice “liberal”, (odiatissime dallo zoccolo duro ancora oggi). Di fronte a una Democrazia Cristiana che Aldo Moro cerca di traghettare verso una visione moderna del cattolicesimo politico italiano. I due percorsi, convergenti e paralleli per fare una citazione oramai classica, logorano i socialisti da destra e da sinistra che si vedono costantemente nel pericolo di venire scavalcati e annullati dal “compromesso storico” di Moro e Berlinguer. La danza della DC e del PCI sconquassa i socialisti imponendo il confronto letale tra le correnti dei vari “capi”: Nenni, Mancini, De Martino, Lombardi, Signorile, Demichelis, Giolitti, Manca, Craxi. Bettino alla fine prevale, ma il veleno delle fazioni non smette di logorare il PSI. Al centro e alla periferia.

Ed ecco quello che a mio avviso è stato l’errore più grave dell’era “socialista”: i compagni assorbiti dalla lotta fra fazioni e correnti, che era l’oggetto principe del loro impegno politico, si sono dimenticati di “vivere”. O, peggio, hanno vissuto, governato, amministrato, in funzione di quella lotta e di quelle battaglie. Con tutta la devianza che questa dipendenza comporta e ha comportato. Quando si amministra la scelta ideologica è stata fatta e va dimenticata: quello che conta è la congiuntura, “il presente e vivo” al quale ci si deve dedicare senza riserve. A Torino il litigio fra le correnti era una costante velenosa dell’azione amministrativa: il metodo era il “dispetto”,  tutte le decisioni ne erano impestate e spesso per effetto delle compagne femmine che interpretavano lo scontro/confronto con visceralità e passione  degne di cause migliori, ma anche il Governo romano soffriva della stessa malattia a scala nazionale e con conseguenze molto più gravi. Il giocone che alla fine ha condannato una intera classe politica e del quale oggi soffriamo le conseguenze. Non so se questa sia la ragione della scelta del bel titolo “Ricordati di vivere” (una citazione goethiana), ma se non lo è stata credo la si possa aggiungere alle ragioni di Claudio. Craxi, io e Martelli siamo andati allo stesso liceo milanese, il Carducci, a cinque anni circa di distanza l’uno dall’altro. Non il Parini, non il Berchet: un liceo Classico molto più “ruspante” dei due spocchiosissimi superlicei milanesi. Eravamo diversi, noi del Carducci, e un giorno proverò a dire perché. Credo anche che la radice comune abbia avuto precise conseguenze sulle storie successive.

Forse nel libro di Claudio Martelli si può leggere implicita la risposta alla mia domanda, già nello stesso titolo, e mi permetto di esprimerla in chiaro: “usciremo dal tunnel quando saremo capaci di ristabilire la giusta distanza tra ideologia e pratica di governo”. Questo non vuol dire ignorare l’ideologia, il pensiero filosofico “guida”, ma saperlo contenere nella sua area di competenza. “Ricordarsi di vivere” in altre parole. Qualcuno ha detto: “ne usciremo quando i comunisti la smetteranno di fare i comunisti[1]. Una affermazione assolutamente “scorretta politicamente”, ma che dipinge bene la situazione e che non vale solo per i comunisti.

La stagione della scorrettezza politica mi sembra proprio incominciata.

 


[1] Il professor Marco Romano in una conversazione privata che non sono autorizzato a riportare

Informazioni su matteolilorenzo

Architetto, Professore in Pensione (Politecnico di Torino, Tecnologia dell'Architettura), esperto in climatologia urbana ed edilizia, energia/ambiente/economia. Vivo in Australia dal 1993
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