Analisi del voto

Lorenzo Matteoli

27 Maggio 2014

 

Dopo ogni tornata elettorale l’analisi del voto è un succulento passatempo ideologico di tutti gli italiani: vincitori, vinti, trombati e trionfanti, giornalisti, TV star e giù per li rami fino al Bar Sport, al salone del parrucchiere, alla sala d’aspetto del dentista. Una scadenza ineludibile, un esercizio divertente, non privo di utilità.

I risultati elettorali sono una fotografia dell’Italia politica o, meglio una fotografia di come gli italiani vedono la politica, una sfera di cristallo dentro la quale si scruta per capire qualcosa del Paese, di cosa è successo, di cosa potrà succedere.

Le “europee” di domenica scorsa sono particolarmente interessanti e particolarmente difficili da interpretare per il momento particolare italiano ed europeo: le due realtà nel guado lunghissimo di una crisi della quale ci si è scordati l’inizio e della quale non si vede la fine. L’Italia massacrata da vent’anni di guerra civile ideologica fra i fondamentalismi berlusconiani e antiberlusconiani, al terzo governo nominato dal Presidente della Repubblica e non eletto dal popolo, la vita politica sotto lo schiaffo di una magistratura ideologicamente marcata, autonominatasi giustiziera, nell’incubo di un debito pubblico che condannerà all’estremo rigore le prossime tre generazioni di italiani, con i maggiori partiti avvelenati da irrecuperabili dialettiche interne. Per non parlare degli altri mali cronici: mafia, corruzione, indifferenza, disoccupazione, delocalizzazioni, scuola e università nel limbo di riforme continue e contestate e via per malinconie e tristezze.

L’Europa sfiancata dalla crisi dell’Euro, incerta nella sua politica estera, i paesi membri divisi da conflitti monetari e normativi, la sua burocrazia senza “telos” né visione strategica, aggredita da una ondata di euroscetticismo sempre più pesante.

Nello scenario squallido nascono il qualunquismo, il rifiuto della politica, l’antagonismo al limite e spesso oltre la violenza.

Questo il quadro che ha fatto da sfondo alla campagna elettorale nella quale l’Europa e i suoi problemi, la sua crisi e la sua inefficienza politica ed economica ha lasciato il campo, in Italia, a uno scontro tutto locale: è stata la campagna di Matteo Renzi contro tutto l’establishment di destra e di sinistra e contro il pericoloso qualunquismo urlato di Beppe Grillo.

Questa la prima lettura su una maglia molto larga della campagna e del suo risultato in termini di numero di voti. Ma la cosa è molto più complicata.

Ci si deve chiedere prima di tutto che cosa è esattamente il partito che ha vinto. Il PD chi? Non è il partito di Massimo Dalema, non quello di Luigi Bersani, non quello di Rosy Bindi, non quello di Cuperlo e nemmeno quello di Beppe Civati, quest’ultimo simpatico, ma marginale. Quel partito non sarebbe arrivato nemmeno alla percentuale bersaniana del 25.42% (Politiche del 2013). Nel PD del popolo che lo ha votato l’altro ieri in percentuale da record non c’è traccia della memoria storica del PCI, di Palmiro Togliatti, Longo, Secchia, Natta. Non ci sono le linee strutturanti del sindacalismo CGIL, non ci sono i resti del disciolto Partito Socialista e nemmeno i cattolici di sinistra transfughi dalla vecchia Democrazia Cristiana. Forse ci si trovano echi dell’ultimo Berlinguer, quello che non ebbe tempo di esprimersi compiutamente, quello che lo “zoccolo duro”, amandolo molto, cominciava a sospettare, ma anche questi sono vaghi lembi di nebbia in un cielo assolutamente diverso. Nonostante la simpatia espressa dall’interessato questo partito non è nemmeno quello che Walter Veltroni aveva evocato al Lingotto nel gennaio del 2000.

Questo Partito Democratico è un’altra cosa o, meglio, tutti speriamo che sia un’altra cosa. Bersani, Dalema, Bindi dovrebbero prenderne atto.

Questo è il Partito accidentalmente descritto dalla figura e dai comportamenti di Matteo Renzi come letti dagli italiani di varia provenienza e sensibilità politica. Se questa può essere una definizione di partito.

Votato da una larga percentuale di “moderati” , dai “liberals” italiani, dai traditi da Berlusconi, da molti che saggiamente non hanno voluto votare per i vaffa di Beppe Grillo, pur condividendo gli elementi della protesta, probabilmente votato da molti radicali, questo è il partito di chi vuole tenacemente sperare che sia possibile cambiare senza catastrofe, di chi crede che ci sia “un’altra Italia” e che questa sia, in qualche modo, rappresentata da Matteo Renzi, dalle sue battute, dal suo ottimismo, dalla sua “levitas”, dai suoi errori.

Per molti è stato un voto alla “Montanelli” tappandosi il naso. Un voto dato per esclusione. Ma sempre un voto è stato e il risultato è stato il 41% record.

In questo senso la tornata elettorale Europea è stata in verità un grande sondaggio politico italiano e sarebbe corretto che in qualche modo se ne traessero le conseguenze.

Se questa valutazione è vera va fatta qualche riflessione su quale sia il “mandato” che gli elettori di questo nuovo partito affidano a Renzi.

Lo schema di questo mandato è espresso bene, in negativo, dagli sconfitti: Monti, Dipietro, Alfano, Tsipras. I primi due azzerati, gli ultimi due dequalificati alla marginalità.

Questi rappresentano bene quello che Montale descriveva con il famoso verso “Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” (Non chiederci la parola). Non vogliamo il giustizialismo manettaro dell’ipocrita Dipietro, non vogliamo i cincischiamenti pseudo tecnici del bocconiano in loden, non vogliamo il doppiogioco quid-less di Alfano.

Grillo e Berlusconi hanno perso, ma insieme hanno raccolto i voti di un elettore (abbondante) su tre (36%) e sono realtà che non possono essere ignorate. Grillo perché molti motivi della sua protesta sono solidi e provati. Il suo errore è dimostrato in modo limpido da Martine Le Pen in Francia e da Nigel Farage in Inghilterra che hanno condotto una campagna politicamente solida, senza vaffa e senza urla e hanno convinto molti più elettori di Grillo. Berlusconi con il suo sedici per cento raccolto in condizioni di assoluta precarietà ha dimostrato la tenuta dell’elettorato di centro destra “nonostante Berlusconi”.

In positivo il mandato degli elettori è “andare avanti”. Renzi ha fino ad oggi operato a sbalzo, senza supporto e contro il sospetto del suo partito e senza validazione elettorale, poteva fare ben poco, ha fatto ben poco e anche qualche serio errore. Oggi la validazione politica c’è ed è innegabile, non ci sono più alibi, ora si possono fare le cose che fino a ieri sarebbero state bloccate dal “sistema Italia”. Si possono dire le cose che fino a ieri erano scandalo…le mutande dell’imperatore. Si può finalmente cambiare.

Con queste elezioni è successa una cosa importante in Italia: con la campagna di Matteo Renzi e con il voto trasversale degli elettori è stato fondato un nuovo partito politico. Forse ad insaputa di tutti. Come spesso si fanno le cose in questo Paese.

Un partito di sinistra, ma non della sinistra che il PCI/PdS/DS/PD hanno finora creduto di rappresentare, ma di una sinistra più vera e reale, complessa, attuale ed espressa dalla presente critica congiuntura, italiana ed europea. Si tratta ora di capire esattamente cosa sia questo Partito e quale sia il suo effettivo programma oltre la banalità degli slogan da campagna elettorale e la millanteria delle battute e della demagogia spicciola.

Se Renzi se ne renderà conto e si assumerà la conseguente responsabilità può anche darsi che questo nuovo Partito sopravviva alla congiuntura e rappresenti la svolta che da molti anni si aspettava e che per molte volte è stata tradita. Se invece anche questa occasione dovesse venire sprecata per mancanza di visione e di coraggio, per l’ottusità dei vecchi giochi di potere e di segreteria ci aspetta una nuova delusione e molti anni di viscosa palude.

Informazioni su matteolilorenzo

Architetto, Professore in Pensione (Politecnico di Torino, Tecnologia dell'Architettura), esperto in climatologia urbana ed edilizia, energia/ambiente/economia. Vivo in Australia dal 1993
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