Lorenzo Matteoli
21, Gennaio 2015
Abbiamo sentito di tutto: le reazioni della destra estrema, guerra, chiusura di Shengen, recupero della condanna a morte, marchio su tutti i musulmani. Abbiamo ascoltato i dubbi della ragionevolezza moderata e gli equilibri del colpo al cerchio senza dimenticare quello alla botte. Abbiamo subìto la reazione del buonismo multiculturale a tutti i costi anche al prezzo più caro e impagabile dell’annullamento suicida. Abbiamo accolto tutte le saponose versioni del sì … ma …. Abbiamo accettato l’esaltazione dell’Islam “moderato”. Qualcuno ha doverosamente ricordato le migliaia di “Voltaire musulmani”, sgozzati, bruciati vivi, impiccati, fucilati secondo le rigorose categorie della Sharia coranica.
Il Papa ha sancito che a chi parla male della Mamma bisogna dare un cazzottone (una eccezionale pontificia deviazione dalla evangelica “Altra Guancia”); non ci ha istruito il Santo Padre su cosa bisogna fare a chi uccide in nome della Mamma offesa. La differenza fra il cazzotto e duecento grammi di piombo da Kalashnikov resta oscura …
Queste e molte altre cose ancora abbiamo letto e ascoltato. Eppure, dopo due settimane, un bilancio resta ancora da fare.
Il messaggio di Parigi.
La folla immane del giorno dopo a Parigi, i milioni di Je suis Charlie sono stati un segnale forte, di dimensione storica, ma esattamente di cosa? Qual è il messaggio? Quale il mandato culturale e politico?
Dimenticherei le dichiarazioni congiunturali ed emotive e quelle politicamente strumentali, a mio avviso irrilevanti per una visione storica degli eventi.
Partirei invece dalla grande manifestazione di Parigi per cercare di capirne il vero messaggio e il mandato politico che ne deriva. Anche in quella manifestazione si trovano gli elementi emotivi e congiunturali: Je suis Charlie è la contingenza emotiva, l’identificazione simbolica con le vittime per derivarne l’autorità alla reazione, ma oltre all’emozione e al simbolo Je suis Charlie non è il vero messaggio. L’affermazione appassionata e radicale dei due milioni di parigini/europei era un’altra: noi siamo la Francia, siamo liberi, non abbiamo paura, noi siamo l’Europa, siamo liberi, non abbiamo paura.
Siamo l’Europa della nostra storia, delle nostre rivoluzioni, dei nostri filosofi, delle nostre guerre, delle nostre sconfitte e delle nostre vittorie.
Dei nostri pogrom, dei nostri campi di sterminio, dei nostri tradimenti e della nostra vergogna, dei silenzi colpevoli, delle denuncie eroiche.
Delle nostre chiese. Delle nostre monarchie e delle nostre repubbliche.
Dei nostri milioni di morti, vittime o eroi.
Siamo liberi nella libertà che rispetta gli altri, in questa libertà dobbiamo poter dire, scrivere, pensare e cantare quello che vogliamo. Nei nostri paesi viaggiamo dove vogliamo. Ci vestiamo e ci spogliamo come vogliamo. Come vogliamo facciamo l’amore, fra tutti i sessi che la natura liberamente ci offre.
Siamo i figli di François-Marie Arouet aka Voltaire, Jean Jacques Rousseau, John Locke, Giordano Bruno, Benedetto Croce, Filippo Turati, Vincenzo Gioberti.
Non abbiamo paura, non dobbiamo avere paura nelle nostre città nelle nostre case, nelle nostre strade, mercati, stazioni, sui nostri aerei, sui nostri treni, sui nostri tram e autobus, nelle nostre scuole, ospedali, uffici.
La nostra storia, i valori della nostra storia, la nostra libertà e la nostra sicurezza sono diritti inalienabili della cultura Europea. Chi vuol vivere in Europa li deve conoscere e rispettare. Chi vive in Europa li deve dichiarare e affermare. Senza riserve di religione, fede, ideologia, o appartenenza etnica, politica o di razza.
Da queste affermazioni fondamentali derivano tutte le grammatiche di condotta e comportamento che regolano la vita sociale e degli individui in Europa.
I migranti che arrivano disperati, nudi, affamati, malati non vanno solo curati, nutriti, vestiti. Vanno educati: gli va insegnata la lingua, la storia, i costumi, le regole del vivere sociale. Gli va insegnata la grammatica della libertà nel rispetto della libertà degli altri. Se queste regole non le possono accettare per vincoli della loro fede religiosa o della loro interpretazione di quei vincoli non possono nemmeno vivere in Europa. Chi non accetta la legge del luogo, in quel luogo non può vivere. Questa affermazione non è né di sinistra né di destra, è semplicemente la constatazione che chi non accetta le regole e le leggi dei luoghi e del vivere insieme agli altri in quei luoghi si pone in esplicito antagonismo con gli altri.
Da questo rifiuto derivano tutti gli episodi che hanno irritato l’opinione pubblica italiana, quando non hanno suscitato orrore: padri e fratelli che uccidono figlie e sorelle che si fidanzano con un non musulmano, signore musulmane che vogliono entrare in banca con il burqa nero totale, o che vogliono farsi fotografare per la carta di identità con il velo nero sul viso, genitori musulmani che chiedono di rimuovere il crocifisso dalla aule scolastiche, presidi di scuole che non fanno il presepio per non “offendere” gli allievi musulmani… e via di seguito su un elenco infinito di arroganza e stupidità e, purtroppo molto spesso, anche di vera e propria sanguinosa criminalità.
La Sharia non è una legge dell’Europa, le regole e le leggi del Corano non sono regole né leggi dell’Europa. Chi vuole applicare o chi applica la Sharia e le regole del Corano in Europa a cittadini europei si pone fuori dalle leggi e dalle regole dell’Europa e come tale va trattato.
Questi fondamentali riferimenti vanno insegnati a musulmani, buddisti, animisti, pagani, atei e agli aderenti a quali altre fedi e religioni che vogliono vivere in Europa. Dopo averli insegnati vanno fatti rispettare con chiarezza e con fermezza, senza ipocrisia e senza i falsi pudori di correttezza politica o di equivoco multiculturalismo.
Il diritto all’identità
Si dice che l’Italia corrotta e priva di valori non ha le carte in regola per imporre regole o valori a chicchessia: una posizione insostenibile. Le regole e i valori sono validi in se e il diritto/dovere di scriverle e imporle trascende gli individui e le specifiche congiunture etiche. Regole e leggi giuste sono valide comunque e non possono essere inficiate per difetto di chi le scrive, approva e applica. Una legge giusta scritta da un ladro resta una legge giusta. Leggi giuste applicate da un governo di ladri restano leggi giuste. Il comportamento onesto occasionale di un ladro resta un comportamento onesto anche se il soggetto resta un ladro. Posso non credere al bugiardo e non rispettare il ladro ma le leggi giuste vanno rispettate.
Il mito dell’Islam moderato
Resta il problema della distinzione fra musulmani buoni e musulmani cattivi, fra islamici e islamisti. Il concetto di “jihad” come espresso in molti versetti del Corano si presta a molte interpretazioni fra le quali anche quelle di guerra difensiva e di guerra offensiva contro i nemici dell’Islam. Queste ultime non sono peraltro quelle più importanti, ma nella tradizione storica delle interpretazioni seguite alla scrittura originale hanno preso sempre più campo. Ovviamente l’Islam estremo e fanatico si riferisce a queste interpretazioni che assume e applica come dettati categorici e imperativi assoluti anche se nessuna parte del Corano originale avalla questa interpretazione estrema. Ma il vero pericolo dell’Islam non sta nei precetti più o meno confusi del Jihad, ma nella posizione assoluta relativa alla “conquista del mondo”. Il fine ultimo dell’Islam è l’imposizione della Sharia sull’intero Pianeta ed è a questo fine che, cosciente o meno, è tenuto ogni musulmano. Anche i musulmani che si definiscono moderati sono tenuti a questo impegno che è l’essenza dell’Islam. Il concetto di “moderazione” infatti è una contraddizione blasfema per l’Islam. Il “perdono” di Allah per gli infedeli è garantito solo a patto della sottomissione e al pagamento delle decime.
È vero che la maggioranza dei fedeli musulmani non partecipa del fanatismo estremo, ma è altrettanto vero che la non partecipazione non è sufficiente a neutralizzare le frange estreme: nella storia i cosiddetti “moderati” sono sempre stati irrilevanti. Nella Germania di Hitler, nell’Italia di Mussolini, nell’Italia delle BR, nella Germania della Rote Armee, nella Cina di Mao, nel Giappone di Hiro Hito, nell’Argentina della Junta Militare, nel Cile di Pinochet, nell’Algeria di Boumedienne, nell’Iraq di Saddam e nell’Iran di Khomeini, nella Libia di Khaddafi e nella Libia dei Signori della Guerra, nell’Egitto di Al Sisi, nel Nicaragua di Augusto Cesar Sandino…in Somalia e in tutto il mondo dove comandano dittatori, i “moderati” non hanno mai contato, anzi la “moderazione” è sempre stata una incosciente, se non irresponsabile, comoda connivenza e la conclusione di tutte le vicende, nel bene e nel male, è sempre stata sanguinosa. Milioni di morti combattenti e innocenti. Oggi il fallimento e la fine delle primavere arabe ha confermato questo tragico schema.
Lo scontro inevitabile
Lo scontro fra Islam e Occidente laico è quindi ideologicamente e storicamente inevitabile ed è in corso già da decine di anni dove le responsabilità della aggressione originaria sono dell’Occidente imperialista cristiano condivise dall’imperialismo Ottomano, le responsabilità della incomprensione culturale sono dell’Islam.
La conquista Islamica dell’Occidente avverrà probabilmente con la infiltrazione e la prevalenza demografica, in questo senso le azioni dei guerrieri islamisti di al Qaeda, ISIS, al Nusra potrebbero essere fatti positivi e utili perché provocano l’attenzione dell’opinione pubblica e politica dell’Occidente laico e potrebbero aiutare a superare l’attuale fase passiva o addirittura sinergica del buonismo e della sottomissione multiculturale, consolidando ed esprimendo, con rinnovata chiarezza, identità e fondamenti valoriali oggi appannati dallo scetticismo e dall’indifferenza che hanno connotato negli ultimi cinquanta anni la cultura Europea, divisa nei diversi interessi nazionali, di scambio commerciale, di corporazione finanziaria, distratta dal conflitto ancora implicito.
Forse questo è il vero messaggio della grande manifestazione di Parigi: siamo l’Europa, siamo liberi, non abbiamo paura.
Per concludere.
La domanda è cosa si può fare per evitare che lo scontro emergente diventi una tragica sconfitta dei valori laici e razionali della cultura e della libertà Europea.
Certamente non con la guerra, ma con la fermezza e con la affermazione attiva e decisa della nostra identità storica.
Siamo l’Europa, siamo liberi, non abbiamo paura.
Il fanatismo dei guerrieri del Jihad si combatte asciugando l’acqua nella quale nuotano i pesci e rendendo simmetrico lo scontro. Intelligence, informazione, individuazione, neutralizzazione, allontanamento o reclusione. Si può non apprezzare la satira ossessiva e irriverente di Charlie Hebdo, ma per chi uccide per fanatismo shariatico non c’è multiculturalismo che tenga, ma solo ferma affermazione dei principi e punizione dei responsabili.
La infiltrazione ideologica demografica “moderata” si deve invece fermare con la ratio, la scuola, l’educazione, la ferma difesa dei valori della nostra storia, la denuncia severa di ogni tentativo di imposizione di comportamenti, regole o leggi coraniche e tantomeno di giustizialismo shariatico. La “political correctness” che fino ad oggi ha caratterizzato il paradigma della sottomissione multiculturale in Europa deve essere riveduta come prassi ipocrita e suicida.
Il pluralismo culturale deve essere fondato sul rispetto di tutte le culture nei loro contesti geografici e storici. L’eventuale trasferimento di valori deve avvenire, con tempi generazionali, per osmosi naturale, mutua, dei comportamenti, non per imposizione di una maggioranza su una minoranza o tantomeno di una minoranza su una maggioranza e nemmeno per sottomissione passiva a un malinteso intento di comprensione multiculturale. Orrendo sarebbe poi il trasferimento per conquista militare, o con metodi terroristici.
formidabile e saggia analisi di prospettiva. Date: Wed, 21 Jan 2015 16:46:59 +0000 To: ornmariani@hotmail.com
Caro Lorenzo,
anche se mi faccio vivo in ritardo, il tema è attualissimo: ho molto apprezzato il forte richiamo, che pervade il tuo intervento di gennaio, al complesso dei valori che caratterizzano la civiltà occidentale ― in particolare quella europea ― e che costituiscono il nostro patrimonio irrinunciabile. Particolarmente corretto e saggio è sottolineare come la nostra storia e la nostra cultura ci impongono di ricordare che di questo patrimonio fa parte integrante anche la memoria di ciò che di negativo, oltre che positivo, ha caratterizzato la costruzione nel tempo del quadro dei principi fondamentali di libertà, eguaglianza e fraternità, e la progressiva diffusione di una adesione consapevole a questo quadro.
Mi pare che questa diffusione e adesione progressive siano d’altronde sempre oggetto di una loro necessaria anche se spesso faticosa riaffermazione quotidiana ― non da ultimo mediante l’aggiornamento tempestivo del quadro legislativo e normativo che regola e indirizza la nostra convivenza, precisando obiettivi, limiti e possibilità di sostegno a progetti che riguardano lo sviluppo individuale e della collettività.
E’ compito fra l’altro di leggi, norme e regole, far sì che le situazioni di conflitto che possono manifestarsi fra diversi soggetti, diversi gruppi, diverse “categorie” di popolazione (non ultime in particolare quelle, latenti o palesi, fra migranti e residenti), vengano incanalate, indirizzate e risolte in forme che da un lato rispettino quei principi generali che abbiamo prima richiamato, dall’altra rispettino il principio di un “rientro” dei soggetti in conflitto nel quadro di un condizione di “inclusione”, e non di una loro “esclusione” rispetto al contesto sociale di cui intendono continuare a fare parte (o sono entrati a fare parte , nel caso dei migranti).
A proposito di come costruire una corretta integrazione tu richiami giustamente il ruolo dell’educazione:
“I migranti che arrivano disperati, nudi, affamati, malati non vanno solo curati, nutriti, vestiti. Vanno educati: gli va insegnata la lingua, la storia, i costumi, le regole del vivere sociale. Gli va insegnata la grammatica della libertà nel rispetto della libertà degli altri. Se queste regole non le possono accettare per vincoli della loro fede religiosa o della loro interpretazione di quei vincoli non possono nemmeno vivere in Europa. Chi non accetta la legge del luogo, in quel luogo non può vivere. Questa affermazione non è né di sinistra né di destra, è semplicemente la constatazione che chi non accetta le regole e le leggi dei luoghi e del vivere insieme agli altri in quei luoghi si pone in esplicito antagonismo con gli altri.”
La sera di lunedì 16 febbraio, nel corso della trasmissione “Piazza Pulita” su La7, il giornalista Quirico ― dopo un’esperienza di condivisione di una traversata dalla Libia a Lampedusa su barcone, con relativo naufragio finale ― osservava come dai sui colloqui con i migranti emergesse che il trauma provocato dalle varie traversie (anche precedenti) del loro viaggio, li avesse ridotti ad una “tabula rasa”, una vera e propria “pagina bianca”, sulla quale ogni cosa nuova parrebbe poter essere scritta.
Mi pare che ciò possa portare a distinguere ― all’interno del problema della (non) “sottomissione culturale” dell’Occidente ― fra quanto concerne appunto il tema del “migrante” traumatizzato (al quale si può probabilmente applicare quindi con efficacia la “ricetta” dell’educazione), e quanto riguarda coloro che per altre strade sono già arrivati da noi, hanno iniziato un percorso di integrazione tuttora incompiuto, e rispetto ai quali le occasioni o le possibilità di conflitto sono come constatiamo più frequenti ― dovute a specifiche caratteristiche non rinunciabili delle convinzioni religiose e culturali, e delle relative pratiche, oltre che a condizioni sociali e politiche locali e non solo, ecc. (vedi caso Hebdo).
Mi chiedo ― e qui cerco di concludere ― se per questa seconda faccia del problema, senza rinunciare in alcun modo ai nostri valori, non si debba far leva proprio su questi e su come la società occidentale abbia cercato di costruire, sempre aggiornandolo nel tempo, un quadro di regole che di quei valori favoriscono o garantiscono positive ricadute applicative nel regolare i rapporti fra persone e gruppi, diffondendone maggiormente la conoscenza attraverso la pratica della convivenza. Si tratta in sostanza di attivare anche nei confronti di quella che oggi è una “integrazione incompiuta” ― in particolare per una parte della sua componente mussulmana ― quel processo che ha già visto l’Occidente impegnarsi con un certo successo al proprio interno, sia pure nel corso di una vicenda secolare , per far accettare “ l’esistenza di quel che da dentro la propria fede si considera un errore”, riconoscendo tuttavia nel contempo “la natura irriducibile e radicale della religione “ (Urbinati, N. La Repubblica, 18 Febbraio 2014) ― per arrivare quantomeno a forme di tolleranza reciproca.
Ma a tal fine è importante che al quadro dei principi di libertà, eguaglianza e fraternità, che già caratterizzano (o almeno dovrebbero caratterizzare) l’Occidente, si aggiunga e si condivida quello della “conoscenza”: nel senso di una capacità di apertura non timorosa al nuovo, mossa sia dalla curiosità per ciò che è diverso, sia dalla consapevolezza che anche per la nostra società occidentale, il tema del confronto fra principi che regolano su un piano di laicità la convivenza, e principi religiosi, continua ad essere ― in forme mitigate dalla possibilità di esprimere liberamente le diverse posizioni e di poterle criticare ― occasione di conflitto.
Alberto Bottari
Torino, 17 Febbraio 2015