Lontano da Milano ogni tanto leggo notizie milanesi sul Corriere della Sera (Milano cronaca e lettere alla redazione, Cara Signora Bossi Fedrigotti…). L’immagine della città che esce da queste cronache è deprimente: sudiciume nelle strade, parchi vandalizzati, mafia dei parcheggiatori abusivi, piccola corruzione negli uffici comunali, migranti accampati nelle stazioni, rapinatori seriali di prostitute … le lettere alla signora Bossi Fedrigotti dipingono un quadro che definire mediorientale è forse offensivo nei confronti Beirut e Haifa. Quella che era la “capitale morale” d’Italia è oggi quasi un emblema della crisi della civiltà urbana europea.
Sul panorama di squallore galleggia la figura di un sindaco dall’eterno sorriso tra il puerile e l’ebete, che non si capisce bene se ci faccia o ci sia come si dice in Toscana. Capo o balocco incompetente di una giunta di assessori litigiosi dove il meglio delle energie viene investito nel farsi le reciproche scarpe mentre i servizi più elementari della vita urbana sono gestiti da funzionari autocrati e incontrollati. Per un po’ di tempo Giuliano Pisapia se l’è cavata protetto dall’etichetta di”…brava persona…” ma è oramai chiaro e provato che per amministrare la cosa pubblica e in particolare un territorio urbano complesso come una città di 2 milioni di abitanti la connotazione di “brava persona” è una caratteristica sicuramente necessaria, ma per nulla sufficiente. Forse poi, se questa caratteristica è l’unica e quella sulla quale si deve necessariamente insistere per salvare il personaggio, verrebbe anche voglia di dire che si tratta di caratteristica pericolosa. Come la nota qualifica di “tre volte buono”. La qualifica comunque non esime da pesanti responsabilità culturali prima e politiche poi ed è legittimo pensare che forse proprio per essersi reso conto, alla fine anche lui, di queste responsabilità che Giuliano Pisapia ha deciso di non ripresentarsi alle prossime elezioni. Bisogna fare molti auguri a tutti quelli che Pisapia raccomanda come successori.
Ci sono però altre responsabilità e una lunga sequenza di errori che stanno a monte del fallimento della giunta Pisapia e di chi l’ha proposta, imposta ai milanesi e sostenuta. Un’onda lunga partita da lontane tempeste, silenzi, connivenze, subalternità o esplicite pesanti complicità. Una analisi di un quadro storico un po’ più ampio della specifica contingenza milanese è necessaria per capire non solo quello che succede Milano, ma quello che succede in in Italia.
Il fallimento di Giuliano Pisapia a Milano, quello ancora più bruciante di Ignazio Marino a Roma, il disastro politico siciliano, quello della Regione Campania e di Napoli…la sconfitta di Bersani e il preoccupante attuale avvitamento negativo di Matteo Renzi, insomma tutto il quadro generale della sinistra italiana in crisi ideologica, politica, concettuale, logistica è la conseguenza attuale di una crisi iniziata negli anni 1950. Fu in quegli anni e segnatamente con la tragedia ungherese del 1956, poi Praga, poi Varsavia, poi Berlino che iniziò lo scollamento del Partito Comunista Italiano dalla storia e dalla realtà. La difesa caparbia dello stalinismo sovietico ne fu la “marca”. Non valse il coraggio e la visione di Enrico Berlinguer che come vice segretario del PCI (segretario era Luigi Longo) che nel 1969 al Congresso dei Partiti Comunisti denunciò l’invasione della Cecoslovacchia e disse in faccia a Leonid Brezhnev che non approvava la censura al Partito Comunista Cinese e la delegazione del PCI da lui guidata non votò la risoluzione finale di quel Congresso. Anche Berlinguer aveva comunque i suoi dubbi come risulta dalla famosa intervista a Eugenio Scalfari del 2 agosto 1978 quando, a una quasi esplicita richiesta di “abiura” rispose:
«Lei è proprio certo che oggi, 1978, dopo quanto è successo e succede in Italia e in Europa e nel mondo, il problema col quale dobbiamo confrontarci noi comunisti italiani sia proprio quello di rispondere alle domande se siamo leninisti o no? E non dico lei, ma tutti quelli che ci rivolgono tale domanda, conoscono davvero Lenin e il leninismo, sanno davvero di che cosa si tratta quando ne parlano? Mi permetto di dubitarne. Comunque, a me sembra del tutto vivente e valida la lezione che Lenin ci ha dato elaborando una vera teoria rivoluzionaria, andando cioè oltre “l’ortodossia” dell’evoluzionismo riformista, esaltando il momento soggettivo dell’autonoma iniziativa del partito, combattendo il positivismo, il materialismo volgare, l’attesismo messianico, vizi propri della socialdemocrazia. (…) Chi ci chiede di omettere condanne e di compiere abiure nei confronti della storia, ci chiede una cosa che è al tempo stesso impossibile e sciocca. Non si rinnega la storia: né la propria, né quella degli altri. Si cerca di capirla, di superarla, di crescere, di rinnovarsi nella continuità…”
E nel novembre (23/11/78) dello stesso anno anche Amendola rispondendo sempre a Scalfari sulla possibile “revisione” del PCI disse: «non si manipola la propria storia per una manciata di voti. Sarebbe un’offesa alla coscienza dei militanti e, soprattutto, un’operazione ipocrita verso il paese. Queste operazioni le fanno gli avventurieri della politica, ma non un grande partito che deve costruire la propria credibilità su basi certe. (…) Siamo un partito aperto che è nato sulla base di insegnamenti marxisti, leninisti, e di molti altri ancora, specialmente Antonio Labriola, di Gramsci e di Togliatti»
Non tutti sono d’accordo se Guido Carandini nel 1985 (22 Agosto) pubblica su Repubblica un articolo nel quale chiede un congresso straordinario del PCI con questi punti all’odg:
- abbandonare il centralismo democratico;
- avviare una rivalutazione delle esperienze delle socialdemocrazie e di farne il terreno per una proposta di governo alternativo;
- avviare una rivalutazione delle esperienze delle socialdemocrazie e di farne il terreno per una proposta di governo alternativo;
- invitare conseguentemente, in vista di questo obiettivo, le sparse forze della sinistra italiana a riunirsi in un partito “veramente nuovo” da chiamare, perché no, “Partito democratico del lavoro”?»
Anche di fronte a questa nuova apertura l’immobilità ideologica del Partito viene perentoriamente sancita da Adalberto Minucci, all’epoca giovane rappresentante con Piero Fassino dello zoccolo duro dell’operaismo torinese, che condanna senza mezzi termini l’idea di Carandini.
Solo il 12 novembre 1989 (dopo il crollo del muro di Berlino il 9 Novembre 1989) Achille Occhetto presenta alla Bolognina la “svolta”. Pagherà cara con un duro ostracismo la sua iniziativa e il suo coraggio.
Dopo il 1989 il Partito Comunista Italiano diventa prima il Partito Democratico della Sinistra (PDS) poi nel 1998 si trasforma ne i Democratici di Sinistra (DS) ma solo nel 2007 (27 Ottobre) si insedia l’Assemblea Costituente del Partito Democratico DP nel quale non sempre in modo facile e fluido convergono molte anime della sinistra (vera e finta) italiana allo sbando (Socialisti del Psi, democristiani della Margherita, le varie liste collegate a Valter Veltroni, Democratici per Enrico Letta, con Rosy Bindi democratici per davvero, Generazione U…, Ulivo di Romano Prodi, i Verdi di Ermete Realacci…et al.).
Una molteplicità di voci e di manifesti non tutti convinti di una nuova anima e realtà politica e tutti ancora molto legati alle rispettive radici. La nuova organizzazione politica è compatta e unita solo su un progetto: quello di distruggere Berlusconi. Questa priorità distrae da qualunque altra esigenza come quella, non di poco momento, di definire un “manifesto” unitario e un programma politico. Una visione per il Paese.
La storia successiva è una storia di disgregazione, fallimenti, errori. Le dimissioni di Romano Prodi da Presidente, l’ambigua scelta di associarsi a Dipietro e subire la sua ingiuria politica, la presidenza del Partito a Rosy Bindi cattolica, settaria e parrocchiale, la farsa delle primarie, le segreterie balbettanti di Franceschini e Bersani, le sconfitte (o non vittorie) elettorali. La fangosa epurazione di Berlusconi. Poi i governi di nomina presidenziale Monti una vera sciagura politica, Letta debolissimo e inconsistente e da ultimo Matteo Renzi all’inizio una speranza e oggi una delusione. Domani …?
Il Partito Democratico si dibatte con una scissione continua interna e una maggioranza sempre in forse in Parlamento. L’immagine della “sinistra” praticamente distrutta dalla verbalità di Renzi, dagli accordi diagonali con Berlusconi ambigui e poi rinnegati, dalla dilettantesca gestione della crisi romana, dai pasticci milanesi, campani e siciliani.
Questo sfacelo a sinistra è solo compensato da un simmetrico sfacelo e sbando della opposizione di centro destra distrutta dalle disgrazie e dalla leggerezza di Berlusconi e dei suoi sodali litigiosi e privi di visione e di legame culturale ideologico e di programma. Da citare la partecipazione aggressiva, comandata, della magistratura milanese (MD) alla operazione di smantellamento di Berlusconi, peraltro fortemente assistita dallo stesso.
Tutto il quadro è il risultato del vuoto culturale che ha caratterizzato il teatro politico italiano negli ultimi 40 anni con il dissesto della Democrazia Cristiana da una parte e del Partito Comunista dall’altra. Due crolli legati da un destino analogo: la DC tenuta insieme dall’anticomunismo svuotata di “telos” dalla svolta di Gorbachev in Russia, il PCI incapace di muoversi e di denunciare il fallimento del socialismo reale sovietico e di muoversi verso una dialettica pragmatica moderna socialdemocratica per catturare il voto “liberal” italiano tradito dal fallimento di Berlusconi.
Se non fosse mancato Enrico Berlinguer forse il PCI avrebbe potuto sbarcare in un “dopo” diverso nonostante le incertezze dell’uomo: il 22 giugno del 1984 il suo funerale fu manifestazione epocale, l’ultima di un grande partito, e non si cantava Bella Ciao, ma lo storico inno del PCI e di tutte le sinistre rivoluzionarie europee, Bandiera rossa.
Tutto può essere infine confezionato in un unico contenitore macrostorico: la fine delle ideologie. Una fine prevista dai futurologi degli anni ‘70 che investe non solo l’Italia, ma l’Europa e il mondo (Hasan Özbekhan[1], 1921 – February 12, 2007).
Una previsione che si sta puntualmente verificando: le ideologie che hanno strutturato la visione, il confronto politico e i “manifesti” ideali nel secolo scorso, comunismo, democrazia liberale, socialismo, socialdemocrazia, liberalesimo, si sono consumate, si sono esaurite e vengono rimpiazzate da qualunquismo esistenziale, individuale o sociale o, peggio e pericolosamente, da religioni, sette, fondamentalismi di varia matrice, più o meno feroce e funesta. Il nuovo nazismo.
Il problema oggi, e non solo quello della sinistra, è quello di ricostruire un motivo laico per comprendere e governare la storia, per avere uno scopo, obbiettivi, modi e strumenti per realizzarli in tempi consistenti con la vita degli uomini, generazioni, su questo Pianeta, e non in un ipotetico, indimostrabile, futuro ultraterreno. Opzione illusoria, disponibile ma politicamente inutile e pericolosa.
Un compito che richiede grande affetto per la gente, competenza tecnica e di ingegneria, solida visione pragmatica, in una parola grande visione, carisma e saggezza politica.
[1] 1968, Toward a General Theory of Planning.
1970, The Predicament of Mankind. Report to the Club of Rome.
Un vero iconoclasta! Ma chi ti piace? Oltre te.
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