Care Compagne, Cari Compagni

Ecco un altro commento recuperato dopo dieci anni: sono stato rimproverato ancora recentemente per avere usato il termine “compagni” che era corrente nelle assemblee della sinistra di strada (non caviar, non volvo, non pashmina, non prosecco left… quella  ruspante). Un termine che merita rispetto per la memoria di quelli che hanno onestamente sognato una rivoluzione che, tutto sommato, è stato meglio non fare.
LM dieci anni dopo…

Care Compagne, Cari Compagni.

22 giugno, 2010

Non sono mai stato “comunista”. Giovanissimo, per tradizione di famiglia, mi piaceva Malagodi e di lui ricordo il parlare sobrio, la documentazione stringata, l’utopia dell’onesto governo. Faceva la campagna elettorale con una Seicento Fiat, una scaletta gli consentiva di salire sul tetto e di lì parlava ai suoi 12-20 ascoltatori. Finito il discorso, scendeva dalla scaletta e raggiungeva un’altra piazzetta, fermava la Seicento, saliva sulla scaletta, faceva il discorso ….

Per molti anni sono poi rimasto fuori dall’interesse per la politica fino al 1976 quando mi ritrovai con i Radicali di Giacinto detto Marco Pannella, Francesco Spadaccia, Mauro Mellini, Angiolo Bandinelli, Paolo Vigevano, Adele Faccio, Emma Bonino, Roberto Cicciomessere. Per loro feci proposte e produssi documenti sull’energia e fui uno dei promotori del referendum sul nucleare che oggi viene esecrato come errore e che errore non fu, ma questo non è il tema di queste note. Rimasi con i Radicali fino a quando Pannella non volle dare un “passaggio” a Toni Negri, dal quale venne poi vergognosamente tradito. Negri non mi era mai piaciuto: un pasticcione ideologico pericoloso a sé e agli altri che, dalla sua tutelata cattedra padovana mandava i ragazzini a uccidere e a farsi uccidere. Lo dissi a Giacinto detto Marco in una lettera di dimissioni dal PR e lui mi rispose che “da Radicali non ci si dimette”. Grande verità. Alle amministrative di Torino del 1980, non essendoci una lista del Partito Radicale, votai per Novelli con una dichiarazione di voto che venne pubblicizzata su la Stampa (un Radicale per Novelli). Dal 1985 al 1992 ho poi servito come Assessore nella Giunta di Torino come indipendente per il Partito Socialista prima e poi come iscritto al Partito. Sono uno dei tanti (tantissimi) Amministratori socialisti uscito dall’Italia oscura delle tangenti senza imputazioni, né comunicazioni giudiziarie, avendo dignitosamente servito l’Amministrazione. Una storia politica della quale non mi vergogno e per la quale non ho pentimenti. Dopo il 1992 non mi sono più impegnato attivamente nella politica Italiana, ma la osservo e commento sempre con attenzione. 

Questa lunga premessa per parlare di un episodio di ieri: la lettera irritata dei giovani PD che contestano Fabrizio Gifuni per avere salutato l’Assemblea del PD con “Care Compagne, Cari Compagni.”

I giovani PD denunciano l’appellativo e il suo uso come un gesto “reazionario” e “veterocomunista” e rivendicano di voler appartenere a un Partito che non ha nel suo lessico quell’appellativo. Sono “moderni” i ragazzi. 

La mia prima reazione è stata quella di pensare che i giovani del PD crederanno anche di avere superato la fase del veterocomunismo, ma di quella hanno certamente ereditato l’ottusità e l’intolleranza. 

Il rifiuto di aspetti formali della storia, di simboli, parole, lessico, mentre si mantengono intime strutture culturali e mentali è, a mio avviso, una classica manifestazione di scarsa elaborazione ideologica. Il PCI usava l’appellativo compagne e compagni nelle assemblee, nelle riunioni delle sezioni, lo usavamo nel Partito Radicale e lo usavamo nel Partito Socialista. Magari con atteggiamento diverso, meno categorico e formale rispetto ai compagni del PCI, più affettuoso e più corrente (se posso fare un paragone con altra storia e altri luoghi come gli australiani oggi usano nel colloquiale quotidiano l’appellativo “mate” che in lingua inglese vuol dire appunto compagno/amico). Lo usava con molto calore Marco Pannella e lo usava Emma Bonino e gli altri compagni radicali dei tempi eroici del PR. 

A me il termine, all’inizio, suonava strano (la mia memoria malagodiana aveva ancora un sospetto), ma nel tempo il modo di usarlo, con una vena di benevola ironia, e il messaggio di solidarietà, di partecipazione, di vicinanza che trasmetteva, cominciarono a piacermi. Tanto che lo usavo anch’io quando andavo nelle sezioni delle barriere torinesi a parlare con i “compagni della base”, oppure quando andavo a fare lo speakeraggio ai cancelli della FIAT (un servizio ad elevato contenuto di formazione politica e chi non lo ha fatto non lo può sapere), bombardato dagli insulti sanguinosi dei compagni del PCI, ma ampiamente ripagato dal sorriso e dal saluto, timido e complice, dei rari compagni del PSI. Era dura, negli anni ‘80,  la militanza socialista nella Stalingrado della FIAT.

Spiegavo ai miei colleghi in Facoltà l’intensità del rapporto con i ”compagni della base” e la grande responsabilità che veniva innescata dalla loro fiducia e dalla loro attenzione, ma non avevo molta comprensione da parte della soi-disant sinistra accademica, privilegiata e supponente (ma tu cosa ci fai con quelli là…).

In fondo il termine veniva, e viene ancora oggi, da una storia che non può essere rinnegata solo perché è crollato un muro. Una storia di sacrifici, di battaglie, di onesta utopia, di gente che ci ha creduto e che per quell’utopia ha sofferto non poco.

Ecco perché, pur non essendo mai stato comunista, apprezzo il gesto naturale di Fabrizio Gifuni e mi fanno un po’ pena i giovani fighetti “moderni” che lo hanno contestato: la giovane anima del PD rifiuta un appellativo che ha una storia difficile, ma anche eroica e positiva e conferma di avere ereditato, intatta, dal vecchio PCI la supponenza e l’intolleranza.

lorenzo matteoli

Informazioni su matteolilorenzo

Architetto, Professore in Pensione (Politecnico di Torino, Tecnologia dell'Architettura), esperto in climatologia urbana ed edilizia, energia/ambiente/economia. Vivo in Australia dal 1993
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