UNA BREVE RIFLESSIONE SULLE ORIGINI DELLA ATTUALE LACUNA CULTURALE ITALIANA

Lorenzo Matteoli
Idi di Marzo 2023

Scarborough 
Western Australia

Il mal de la cittade[1]

Da molto tempo mi chiedo, come penso facciano molti oggi in Italia, quali siano le origini e le radici del degrado che caratterizza la classe politica dirigente del paese e gran parte dei suoi elettori.  Ammesso che sia possibile uscire dall’attuale tunnel, è sicuramente necessario cercare di sapere come si sia arrivati allo squallore del quale siamo oggi testimoni, vittime e responsabili. 

La drammatica lacuna è culturale, prima che politica: questa classe dirigente politica vive in una bolla astratta, surreale che non ha nulla a che vedere con il senso di vivere in un luogo in un momento[2], vivono nello spazio/tempo prodotto dalle loro agende, dai loro rapporti interni e dai loro diari e calendari, dai loro indifferenti, scettici o fanatici elettori. Leggono sé stessi sui media e da quella lettura hanno di sé stessi un’immagine deforme, in un circuito auto-referenziale riduttivo che li trasforma in meccanismi prigionieri di una equivoca autoreferenzialità

Il vuoto culturale, che è matrice e conseguenza del degrado, li chiude in una gabbia ideologica, che a loro sembra il mondo, e che in realtà è la loro prigione. Purtroppo, in quella prigione, e con le dimensioni di quella prigione, decidono le condizioni e i limiti che il resto del paese deve subire, quasi sempre commettendo irreversibili, quando non letali, errori.[3]

Una classe politica dirigente non è un caso, non è un accidente. È una conseguenza: è lo specchio della società che la esprime. Non ha senso quindi accusarla o ritenerla responsabile dei guai che provoca, come non hanno senso gli insulti e le invettive contro questo o quell’altro suo rappresentante.  Una colpa per la quale devo io stesso scusarmi.

In fondo siamo noi i responsabili, il nostro voto, la nostra attenzione o la nostra indifferenza.  Per questo la mia domanda iniziale deve essere corretta: è l’origine, sono le premesse dell’attuale squallore della nostra società, non solo quelle della attuale classe dirigente, che vanno cercate e analizzate, ed è questo l’esercizio che vorrei svolgere.

Una figura della situazione

Oggi, dalle cronache quotidiane, non si riesce e costruire un’immagine chiara, definita, dell’Italia. Analizzando i risultati delle recenti elezioni politiche e amministrative, analizzando i profili economici e macroeconomici del Paese, valutando il confronto e la dialettica fra i partiti del governo e dell’opposizione, analizzando la dialettica interna al Consiglio dei Ministri e il confronto fra il governo e la pubblica opinione, fra le parti sociali, grandi corporazioni industriali private e statali, Banche e Istituti Finanziari, Confindustria, Università, associazionismo, sindacati e media… non si riesce a comporre una figura chiara e definita della situazione italiana attuale.

Il Paese appare come una congerie di campanili, di regioni, di istituti, di soggetti politici, sociali e individuali antagonisti fra loro e contro il Governo. Una litigiosità diffusa, continua, aspra caratterizza il confronto culturale, sociale e politico. Riscontro preciso di questa tensione sono i cosiddetti “talkshow” televisivi, dove il dibattito corretto viene sempre travolto da berci, insulti e, spesso, da aggressioni manesche fra i partecipanti. I “moderatori”, in genere settari, provocano, invece di moderare, per compiacere un pubblico che apprezza di più il litigio, e i comportamenti sguaiati e volgari, che le idee dei partecipanti che sono spesso banali, quando non del tutto assenti.

La stessa litigiosità caratterizza i rapporti tra i membri del Governo, ansiosi di occupare spazi di opinione che garantiscono apprezzamento popolare, anche se contrari all’interesse comune del Paese quando non addirittura pericolosi. La prassi corrente del confronto politico è l’inseguimento, nel territorio della più devastante demagogia, fra i vari soggetti.

Questo contesto impedisce la elaborazione di obbiettivi condivisi e la formulazione di coerenti programmi e progetti per raggiungerli. Un problema  che è reso ancora più difficile per la carenza, nell’area del governo e dell’opposizione, di competenze e professionalità in grado di esprimerli. Questi il quadro generale delle condizioni per le quali sia il Governo che le opposizioni mancano di  visione strategica nel medio e nel lungo termine del Paese e dell’Europa. Dato essenziale per governare il Paese. Si galleggia sul litigio quotidiano, decidendo demagogicamente in base alle cronache dei media e all’immagine di sé stessi che queste riflettono. Una pericolosa involuzione.

Le radici antiche

L’Italia è sempre stata territorio di transito, di invasioni e migrazioni: Etruschi, Sanniti, Latini, Senoni, Ligustri, Greci, Veneti, Dauni, Fenici erano arrivati nella Penisola migliaia di anni prima della Roma dei sette Re. Invasioni e migrazioni che continuarono dopo la conquista e la “federazione” romana, monarchica, repubblicana, imperiale: Unni, Franchi, Normanni, Germani, Slavi, Albanesi hanno continuato a premere e a violare i confini dell’Impero. Roma respingeva con le armi o negoziava con trattati e denaro. Famoso l’aneddoto (18 luglio 386 a. C. secondo Polibio, 390 a C. secondo Varrone) del capo dei Galli Senoni, Brenno, che gettò la sua spada sulla bilancia che pesava l’oro del riscatto pagato da Roma per allontanare i barbari, gridando “Vae victis!”[4]. Nel racconto di Livio il console plenipotenziario Marco Furio Camillo si oppose al pagamento e predispose il contrattacco. 
Le cose cambiarono poi con la vittoria di Caio Giulio Cesare in Gallia su Vercingetorige leggendario capo dei Galli Arverni (battaglia di Alesia Settembre del 52 a. C.).

Cesare assedia e viene a sua volta assediatoCredito: http://www.arsbellica.it/pagine/antica/Alesia/alesia.html

Il monumento a  Vercingetorige ad Alesia progettato da Viollet le Duc  
commissionato da Napoleone III nel 1865. Il giovane capo degli Arverni, giustiziato dai Romani con il garrottamento rituale nel trionfo di Cesare nel 49 a.C  è rimasto un eroe nella storia della Francia moderna

Il Brenno e le giovani vestali Romane ridotte a schiave sessuali, salvate da Marco Furio Camillo
credits: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/archive/a/ac/20161121170138%21Paul_Jamin_-_Le_Brenn_et_sa_part_de_butin_1893.jpg

L’Italia prima di Roma 
credits: https://www.homolaicus.com/storia/antica/roma/etruschi.htm

Di questa storia si hanno tracce leggendarie, mitologiche nelle tradizioni orali e nelle opere di Sallustio, Polibio, Tucidide, Livio[5] e dati più precisi nelle  moderne analisi linguistiche dei dialetti che hanno formato la lingua italiana, nei quali si trovano tracce di tedesco, francese, spagnolo, greco, arabo, slavo, latino, e qualche radice ugro-finnica e transiberiana. In origine, quella che divenne la lingua italiana di Dante, era il dialetto di Siena e di nessun altro luogo in Italia. Una sintesi delle varie lingue parlate nella penisola, che documenta le radici multietniche e multiculturali dell’Italia, si trova in Wikipedia:

Per affinità etnico-linguistica, si è soliti considerare sia i Latino-falisci che gli  Osco- Umbri  come appartenenti alla famiglia linguistica italica. Questi due gruppi di popolazioni, come l’osco, i dialetti sabellici, l’umbro, il latino, il siculo ecc. sono stati successivamente suddivisi in due distinti rami indoeuropei, chiamati lingue italiche occidentali (Latino-Falisco) e lingue italiche orientali (Osco-Umbre), ipotizzando che derivino da due distinte migrazioni indoeuropee. Le popolazioni di lingua indoeuropea giunte nella penisola si sarebbero sovrapposte a quelle più antiche, di origine neolitica, oppure si mescolarono a esse, dando origine ai gruppi Osco-Umbri, ai Latini e loro affini, ai Siculi in Sicilia.

Le antiche popolazioni dell’Italia contemporanea nel loro complesso possono classificarsi in:

  • di lingua preindoeuropea (le lingue di alcune di queste popolazioni sono documentate da iscrizioni, mentre su altre le informazioni sulla lingua sono ricavate da onomastica e toponomastica) che sono:

gli Etruschi, i Liguri, gli Euganei, i Reti, Camuni, Sicani e i Sardi (suddivisi in Iolei, Balari – questi forse di lingua indoeuropea – e Corsi).

  • di lingua indoeuropea, a loro volta differenziati per:

Appartenenza alla famiglia italica (delle popolazioni latino-falische e osco-umbre si hanno abbondanti informazioni riguardo alla lingua e alla religione):

Latini (compresi Falisci), Capenati, Siculi, Ausoni,Aurunci, Campani, Opici,

Enotri, Ital(suddivisi in Morgeti, Siculi), Elimi, Sabini, Piceni, Umbri, Sanniti,

(Carricini, Pentri, Caudini e Irpini), Osci, Lucani (tra i quali gli Ursentini), Bruzi, Sabelli adriatici,

(Marsi, Peligni, Marrucini, Frentani, Pretuzi, Vestini), Apuli, Sabelli tirrenici, (Ernici, Equi, Volsci).

Altra affiliazione:

Gli Iapigi (di probabile origine illirica e suddivisi in Dauni, Peucezi e Messapi), i Veneti, i Rutuli (di origine ignota), i Celti (Boi, Cenomani, Senoni, Orobi, Leponti, Carni, ecc.), i coloni Greci della Magna Grecia e delle altre colonie greche in Italia (Italioti, Sicelioti).

Italia linguistica
credits: https://en.wikipedia.org/wiki/User_talk:Dbachmann

La connotazione multietnica e multiculturale del Paese rimane forte durante il potere di Roma. Roma federava, dopo la conquista, con legami civili, fiscali, amministrativi e di alleanze nei conflitti con altre potenze. La conquista poteva essere dura e le guerre crudeli, ma, dopo la conquista, la gestione romana era civile, logistica e amministrativa. Le tradizioni locali erano rispettate e su queste si sovrapponeva l’ordine, l’organizzazione, lo ius romano. Le culture, i costumi, le tradizioni locali, regionali, urbane rimanevano in essere, con grande vantaggio del regime federativo. Le famiglie benestanti parlavano (anche) latino, ma la gente manteneva la lingua del luogo.

Nella figura geopolitica dell’Italia medievale e rinascimentale il senso della intelligenza amministrativa romana rimane evidente: ogni città mantiene la sua autonomia culturale come memoria della “federazione” romana. 

Map

Description automatically generated

L’Italia settentrionale nel 1500: ogni valle una lingua, ogni città un re, una pre-esistenza solida che il Risorgimento non cancellò.
Crediti: Edoardo Puddu, https://www.pinterest.it/ideas/world-history/914034997276/


L’Italia unico Paese Europeo con una millenaria storia multietnica che non si può ignorare. Una storia che va rispettata e considerata come condizione attuale. Forte premessa per guardare all’Europa con precisa e specifica competenza. Eravamo ”europei” da secoli, non possiamo dimenticarlo.

L’Italia sotto il predominio spagnolo
crediti: http://www.tuttitemi.altervista.org/Storia/StoriaM/DominazioneSpagnola.htm

L’Italia nel Medioevo e nel 1600: il Regno d’Italia del Sacro Romano Impero di Federico II, poi Regno di Napoli degli Angiò Francesi e poi degli Aragona Spagnoli  (1442-1501) degli  Asburgo austriaci (1713-1734) e poi dei Borbone (1735-1759), unica realtà territorialmente significativa nella penisola. La Savoia francese. Milano longobarda, quindi spagnola e poi austriaca. Solo Venezia rimase sempre Venezia Repubblica Serenissima, la vera capitale storica, finanziaria e mercantile italiana, e libera fino alla conquista, senza battaglie, di Napoleone Bonaparte (1807).

Nell’Italia medievale e rinascimentale resta la traccia delle “federazioni” dell’antica Roma, e la penisola si polverizza in decine di “città, comuni, municipi, principati, ducati, baronie, marchesati, signorie” piccoli stati autonomi governati da aristocrazie e famiglie di origine nobile, mercantile, finanziaria (principi, duchi, marchesi, baroni, dogi, signori).

Caratteristica strutturale, fino all’unificazione piemontese del 1870, è la frammentazione e la connotazione dell’Italia come congerie e di autonomie locali: ogni entità con la sua moneta, le sue misure, la sua legge, le sue tasse, la sua lingua,  il suo “capo” (duca, principe, conte, vescovo, marchese, barone, capitano), le sue milizie, le sue gerarchie e le sue burocrazie e la specifica, distinta cultura. Ancora oggi Napoli non è Milano, Venezia non è Torino e Roma è Roma. Strutture territoriali e culture consolidate da qualche decina di secoli che l’unificazione Sabauda non ha annullato o superato, nonostante la presunzione risorgimentale, vantata dalla storiografia ufficiale. Presunzione che è stata radicalmente ridimensionata dagli storici post-unitari e contemporanei.

L’attuale pressione per  il consolidamento delle autonomie regionali, la spinta delle culture locali per la rivalutazione dei dialetti e del loro insegnamento nei curricula scolastici, la competizione antagonista fra le regioni e il loro atteggiamento “assertivo” rispetto al Governo centrale, sono tutti segnali della permanenza, non proprio subliminale, di questa cultura. Un dato di fatto che non si può ignorare.

La frase: “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani”, spesso attribuita al Conte Camillo Benso di Cavour, appartiene invece a Massimo D’Azeglio, è ancora attuale ed è evidente in molte situazioni difficili, oggi in emergenza, in cui sono forti i conflitti e le tensioni, sia sociali che politiche, fra le periferie e fra le periferie e il centro romano.

L’Italia dei primi anni del Regno Unito sotto i Savoia.

Poco venne fatto dalla gestione della monarchia piemontese per superare la frammentazione italiana ereditata dal Medioevo e dalle originali federazioni della Repubblica e dell’Impero di Roma antica. In particolare, nulla con Torino Capitale. È  documentata l’insofferenza del resto della Penisola nei confronti del potere e della burocrazia piemontese. Insofferenza politica e culturale in Toscana, Emilia e a Roma, che invece nell’Italia meridionale (Basilicata, Calabria, Campania e Sicilia) si espresse in una aperta ribellione. I ribelli vennero qualificati dai piemontesi come briganti e la ribellione, provocata dalla brutale arroganza dell’esercito sabaudo, venne repressa con durezza in molti casi criminale: documentati, ma ignorati dagli storici risorgimentali, i massacri di interi villaggi da parte dell’esercito piemontese. Episodi che non facilitarono il processo di integrazione nazionale e spinsero invece le passioni di autonomia e di indipendenza verso ulteriore radicamento, consolidando le strutture mafiose già naturalmente insediate in quei territori. [6] Nessun miglioramento del problema con il trasferimento della Capitale da Torino a Firenze e da Firenze a Roma: i burocrati torinesi trasferiti e le loro famiglie parlavano rigorosamente Piemontese[7] e risiedevano, isolati, nei loro quartieri (ghetti piemontesi).

Il tentativo nazionalista del ventennio fascista

Mussolini conosceva il problema e la storia riporta numerose sue battute per denunciarlo, spesso arroganti e irritate. Le sue iniziative per risolverlo erano di colore, di propaganda e di forma superficiale, mai di sostanza. Il saluto fascista, le divise dei gerarchi, la camicia nera, le divise dei balilla, i littoriali della cultura fascista, le adunate oceaniche. Nonostante la pesante insistenza sui concetti di “patria” e di “nazione”, nella scuola, nella politica, nella propaganda del regime, i due concetti rimasero patrimonio, spesso superficiale e di figura, della cerchia ristretta del regime, e non vennero mai riscontrati dal grande pubblico che, per l’irritazione contro la pesante propaganda, rimase scettico. Un antico, saggio, ancorché gretto costume italico.[8]

La vittoria nella Prima Guerra Mondiale, sanguinosamente conquistata, anche grazie agli alleati francesi e inglesi,  non valse all’affermazione del sentimento nazionale. La gestione dell’elite militare sabauda-piemontese, la tragedia della sconfitta di Caporetto, non aiutarono l’affermazione di un sentimento nazionale. Dalla “vittoria negata” nasce la ribellione di Gabriele D’Annunzio e l’embrione del fascismo, che, comunque, non era un sentimento nazionale, ma una forma di scapigliatura settaria di una ristretta elite culturale.

La sconfitta e la tragica fine della Seconda Guerra Mondiale (in parte riscattata dalla Resistenza e dalla Guerra Civile dopo l’8 Settembre 1943), la condotta disastrosa della guerra da parte dei generali e dell’elite militare fascista[9], la drammatica impreparazione militare e logistica, il tradimento della Casa Reale Savoia, marcano in modo pesantemente negativo il concetto nazionale. La Patria sono i carabinieri che fucilano chi si ritira dalle trincee indifendibili, sono le scarpe di cartone nella steppa russa gelata, le baionette contro i carri armati ad El Alamein, la vergognosa complicità con il genocidio di Hitler, ancora oggi ipocritamente taciuta dalla nostra storiografia ufficiale, conforme e condizionata.[10]

Patria e nazione nella cultura repubblicana dal 1945 ad oggi

Nella successiva cultura dell’Italia democristiana ogni espressione di sentimento nazionale, per disistima antifascista, viene marcata, in particolare dalla sinistra intellettuale e politica, con il termine derogativo di “patriottarda”. Atteggiamento che rimane forte ancora oggi. I tentativi del Governo di Giorgia Meloni di ricreare  un sentimento nazionale non sembrano partecipati dall’opinione pubblica. Il concetto di “nazione”, promosso dai post-fascisti al potere, non ha speranze di grande successo e porta il peso di un marchio storico negativo.

Ma non è quella la sola ragione della debolezza e della attuale incongruenza del concetto “nazionale”, che non è mai stato effettivamente acquisito e partecipato dagli Italiani. La “nazione”, nel contesto europeo, e in un Pianeta “globale”, è un concetto obsoleto, una identità priva di significato. Sulla base di una identità imprecisa, sotto molti aspetti eticamente equivoca per la storica responsabilità del fascismo e del nazismo, senza sapere chi siamo e da dove veniamo, è impossibile sapere dove vogliamo andare, con chi e come. Ecco la ragione della nostra confusa politica europea, pasticciata con l’adiacenza ambigua al sovranismo populista di Visegrad e gli incerti atteggiamenti atlantici della signora primo ministro. In questo ambito è necessario e urgente fare chiarezza, possibilmente nel rispetto della storica tradizione atlantica dell’Italia.

Il cittadino italiano prima di essere italiano è milanese, romano, veneziano poi  lombardo, laziale, veneto, dove le prime connotazioni,  urbane e regionali, sono molto più importanti della connotazione “italiana” (patriottarda). Pochi si sentono prima “italiani” poi “regionali” o “cittadini”. L’Italia è distante, la regione e la città sono immediate e vicine, quando il milanese parla, parla con l’accento milanese, se non addirittura (fino a pochi anni fa) nel dialetto di Milano. Il suo senso di vivere in un luogo in un momento  è il senso di vivere a Milano, oggi.[11] Non in Italia, e tantomeno in Europa.  Lo stesso vale per i torinesi, i romani, i veneti e per tutte le altre regioni e città della Penisola. Un sentimento particolarmente acuto  nell’Italia insulare: Sardegna e Sicilia.

Ecco perché lo slogan “prima gli italiani” è l’emblema significativo e velenoso della  visione riduttiva sovranista.  Una contraddizione letale: la verità deve essere “prima gli europei” e, di più, “prima i cittadini del mondo”. Le uniche condizioni per garantire, davvero, l’altrimenti sciocco, gretto, demagogico “prima gli italiani”.

Un concetto che non è solo difficile da capire, ma fuori da qualunque categoria comprensibile per l’elettore populista attuale. Una conseguenza storica ineludibile e non una colpa. E non serve studiare.[12]

Per questo devo rivedere e devo riconoscere il mio errore per gli innumerevoli scritti polemici con i quali ho qualificato come “responsabilità” e seria “lacuna culturale” la incapacità di comprendere dell’attuale cultura politica detta populista.

Chi non ha gambe non può imparare a camminare, e “non avere gambe” non è una colpa.

Il corollario di questa condizione è che si tratta di un problema  che va risolto nel quadro europeo e planetario e non esclusivamente italiano. Un serio limite culturale della attuale classe dirigente politica, che impedisce la comprensione delle dinamiche culturali, macroeconomiche, sociali e politiche alla scala europea in un Pianeta strutturalmente interconnesso. 

Alla luce di quello che si sta verificando oggi è chiaro che l’Europa è stata concepita molto prima della cultura necessaria alla sua comprensione da parte dei suoi abitanti e quindi indispensabile per la sua gestione e governo: la cultura necessaria non è quella dell’avanguardia di pochi isolati visionari, ma quella diffusa e partecipata dei milioni di elettori. 

Una cultura che ancora oggi non si è formata, e poco si è fatto per formarla.

I padri fondatori avevano chiara quell’utopia, ma erano una avanguardia isolata, questo è chiaro oggi alla luce di quello che sta succedendo.[13]

Per uscire dalla palude
La condizione preliminare ineludibile per ogni percorso di recupero di qualità etica e culturale della situazione sociale e politica italiana è il riconoscimento della nostra storica consolidata struttura sociale multietnica e multiculturale.  Deve essere abbandonata come antistorica, irreale e inapplicabile ogni velleità nazionale. L’Italia non è una “nazione”, non lo è mai stata e probabilmente non lo sarà mai in futuro quando sarà integrata in un contesto europeo multietnico e multiculturale. La presunta risorgimentale identità “nazionale” è stata sempre un ostacolo e un problema, la piattaforma multietnica e multiculturale è una base molto più naturale e immediata dalla quale innescare la dialettica e un dialogo coerente con il resto del mondo sarà più facile e diretto.

Abbandonare la presunzione risorgimentale e il falso orgoglio nazionale che non ci è mai appartenuto e il bagaglio “patriottardo” obsoleto, riconoscere la valenza potenziale dell’identità multiculturale e adottarla come base e strumento di apertura coerente verso il mondo che è per sua natura multietnico e multiculturale. 

Gli strumenti

La lacuna culturale di una classe dirigente e la scarsa maturità politica di gran parte di un corpo elettorale sono problemi che richiedono interventi e strategie di emergenza nel breve termine e contemporaneamente impongono strategie e azioni sistematiche di lungo termine. È necessario impedire l’innesco di un ciclo involutivo perverso. La scuola e i media sono gli strumenti fondamentali che fino ad oggi sono catastroficamente mancati.

Sia la scuola che i media sono peraltro inutilizzabili nella loro attuale condizione. 

La scuola media produce generazioni di soggetti acritici e conformi e, dopo quaranta anni di riforme demagogiche, affollata  da insegnanti dequalificati assunti ope legis, è appiattita su paradigmi ipocritamente egualitari che rendono impossibile applicare la necessaria meritocrazia[14]. Domina la istituzionale tutela dei soggetti deboli con il conseguente sacrificio dei cervelli migliori. I deboli vanno tutelati e assistiti, ma questo non deve comportare l’appiattimento verso il basso di tutta la popolazione scolastica. Come invece oggi avviene.

Peggiori sono le condizioni dell’insegnamento superiore. I licei Classico e Scientifico, un tempo vanto internazionale della Pubblica Istruzione italiana, stanno per essere sacrificati da riforme di metodologia didattica e programmatiche che in realtà ne umilieranno i contenuti formativi e culturali. Non si vede in questo governo, e nemmeno in quelli di un difficile ritorno della sinistra, la probabilità di recupero della qualità della Pubblica Istruzione. Sono facili i cambiamenti verso la dequalificazione demagogica, il recupero (metodi, meritocrazia e programmi) dopo i disastri conseguenti sono pressocché impossibili. Si veda cosa è successo all’Università italiana dopo l’illusoria primavera del 1968.

I media, stampa e televisione, sono dominati da lottizzazione feroce.  Nei giornali, quotidiani e settimanali, poche testate e pochissime firme si salvano dall’asservimento e, comunque, sono poco frequentate dal grande pubblico che viene imbesuito dai cosiddetti social media: una gazzarra di scatenata, incontrollata imbecillità. Il danno prodotto sulla cultura generale del pubblico è catastrofico.

Con queste premesse ipotizzare un plausibile recupero richiede un forte ottimismo. Di seguito descrivo una linea propositiva della difficile rivoluzione a venire.

L’emergenza di  breve termine 

Deve essere predisposta una campagna di informazione finalizzata alla educazione e alla informazione dell’elettorato sui problemi principali e sulle priorità del Paese: 

  • la necessità dell’immigrazione per contrastare la crisi demografica
  • strategie per l’immigrazione (tutela in Libia e Tunisia, salvataggio in mare, accoglienza, assistenza sanitaria, educazione-formazione-integrazione) sul breve, medio e lungo termine.
  • economia, controllo del debito pubblico, regime fiscale e sua riforma, iniziative per incentivare il risparmio, investimenti prioritari
  • necessità ineludibile di un positivo rapporto con l’Europa
  • insegnamento professionale dell’inglese a tutti i livelli del percorso scolastico

Strategie di medio lungo termine

  • formazione di un profilo europeo nei programmi scolastici a tutti i livelli 
  • insegnamento professionale dell’inglese a tutti i livelli del percorso scolastico
  • elementi base di una sensibilità macroeconomica ed economica della complessità di un mondo interconnesso nei programmi della scuola superiore
  • elementi di strategie di lungo termine per il recupero di un Pianeta sostenibile nei programmi della scuola media e superiore
  • la politica estera di un paese europeo: economia, ambiente, immigrazione nei programmi delle scuole superiori.
  • Elementi di progettazione di scenari futuri nei programmi delle scuole superiori

Il governo deve istruire norme severe per regolamentare i talk-shows televisivi e imporle alle televisioni private e di Stato. Chi grida, usa linguaggio abusivo, interrompe gli interlocutori o i moderatori, deve essere interdetto dalla partecipazione a dibattiti televisivi. Una sola infrazione provoca l’interdizione sine die. Deve essere istituito un comitato interpartitico per istruire le denunce e sancire le interdizioni. I moderatori settari e abusivi sono soggetti alle stesse norme. La libertà di parola è un diritto che non giustifica né ammette insulti, volgarità, aggressioni fisiche o verbali degli interlocutori.

Più difficile ipotizzare una linea di controllo dei social media, il confine di questo controllo con lo spazio della libertà di espressione è a rischio, ma il problema va affrontato perché la situazione attuale è sicuramente tossica. Potrebbero servire algoritmi di controllo molto sofisticati, analoghi al chatGPT, per individuare e bloccare le aberrazioni in quell’enorme territorio.

Quale classe politica

Solo un elettorato competente, maturo e informato può esprimere con il voto una classe dirigente politica competente e capace. 

I partiti politici devono istituire scuole di formazione dei quadri con corsi triennali. Solo i quadri che frequentano i corsi di formazione e superano gli esami finali possono candidarsi nelle elezioni politiche e amministrative. 
Il suffragio universale va assistito con verifiche della competenza e della cultura generale degli elettori. Il diritto di voto è un privilegio che comporta la responsabilità di sapere cosa si vota, lo Stato deve predisporre gli strumenti che consentano ai cittadini di assumersi con competenza questa responsabilità. L’esercizio del voto è obbligatorio. Chi non vota, avendone diritto, è soggetto a pena amministrativa proporzionale al suo reddito da stabilire con apposita legislazione.

Conclusione

La breve riflessione suggerisce iniziativa politica radicale e sicuramente impossibile per il governo attuale (Premier Giorgia Meloni, partiti Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) e molto probabilmente difficile anche per futuri governi di sinistra o centro sinistra. Ma le tendenze in atto nel Paese, di dequalificazione politica e culturale, sono catastrofiche e questo significa che, nella futura drammatica emergenza, qualche iniziativa si imporrà, comunque.

Meglio prepararsi che subire l’approssimazione dell’emergenza.

L’Italia non è un paese disponibile a sanguinarie rivoluzioni, ma cambiamenti radicali non sono impossibili e si sono verificati nella nostra storia.

L’ultima rivoluzione tentata e abortita negli anni 1970 fu quella delle Brigate Rosse:  venne stroncata, prima che dai Carabinieri del Generale Dalla Chiesa, dalla violenta grossolanità dell’ala armata delle BR. Se le BR non avessero travolto i movimenti di estrema sinistra, scegliendo la strada degli omicidi, un impegno radicale per il cambiamento (già allora di evidenza drammaticamente necessaria), avrebbe avuto l’appoggio di gran parte dell’opinione pubblica progressista e avrebbe probabilmente acquisito buone probabilità di diventare iniziativa politica realizzabile o, quantomeno, di inserirsi fattivamente nella dialettica plausibile.[15]

Educare l’opinione pubblica, promuovere iniziative coerenti, essere presenti nel dibattito politico, denunciare la stupidità e l’incultura,  sono tutte iniziative che possono rendere possibile il cambiamento indispensabile.

Premessa ineludibile: conoscere per cambiare.

Lorenzo Matteoli


[1] “…Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade…” Dante, Paradiso Canto XVI

[2] La definizione di “cultura” di Immanuel Kant

[3] Esempi drammatici  l’incapacità di gestire il fenomeno dell’immigrazione e la  provincialità degli atteggiamenti nei confronti dell’Unione Europea.

[4] Probabilmente non in Latino, ma nel suo dialetto gallico.

[5] Tutti i documenti storici precedenti al 390 a. C. sono andati persi nel sacco di Roma.

[6] Per una documentazione meno “conforme” della lotta al banditismo meridionale post-unitario vedi : https://hal-sciencespo.archives-ouvertes.fr/hal-03459542/document

Dal quale traggo:  “La dimensione traumatica del brigantaggio permette di comprendere i ritardi e le dinamiche della storiografia sul fenomeno, non a caso assurto a oggetto di studio scientifico quando, all’indomani della Prima e poi della Seconda guerra mondiale, profonde crisi politiche e morali sembrarono scuotere dalle fondamenta gli assetti istituzionali fissati dal processo risorgimentale. Negli ultimi anni, il rinnovamento della storiografia sul Mezzogiorno appare coinvolgere – talvolta per replicare alle polemiche revisioniste – anche lo specifico tema del brigantaggio.”

[7] A Torino, come a Venezia e in tutte le importanti città italiane, nelle famiglie nobili, e della buona borghesia si parlava il dialetto “còlto” ancora negli anni 1920-1930. Sui cantieri torinesi degli anni 1930 gli architetti e gli ingegneri parlavano rigorosamente in piemontese alle maestranze per avere la certezza di essere capiti.

Nell’esercito sabaudo gli ufficiali parlavano francese o piemontese, non l’italiano.

[8] “Franza o Spagna purché se magna”

[9]  La catastrofica spedizione in Russia.

[10] A questo proposito conviene ricordare una famosa  battuta di George Orwell: “If liberty means anything at all it means the right to tell people what they do not want to hear.”
 
Se la libertà significa qualcosa, allora significa il diritto di dire alla gente le cose che non vuole sentire.”

[11] Secondo la definizione di “cultura” di Immanuel Kant come “il senso di vivere in un luogo in un momento”.

[12] Per chi ritiene di sapere già tutto.

[13] Due italiani (Altiero Spinelli e Alcide De Gasperi), due francesi (Jean Monnet e Robert Schuman), un tedesco (Konrad Adenauer), un lussemburghese (Joseph Beck) e un belga (Paul Henri Spaak).

[14] Un concetto che la sinistra conforme non ha mai compreso: per gestire l’uguaglianza è necessario riscontrare le differenze.

[15] Testo emendato rispetto alla prima versione per accogliere l’osservazione di Gianvincenzo Fracastoro (cfr matteolilorenzo.blog)

Informazioni su matteolilorenzo

Architetto, Professore in Pensione (Politecnico di Torino, Tecnologia dell'Architettura), esperto in climatologia urbana ed edilizia, energia/ambiente/economia. Vivo in Australia dal 1993
Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

4 risposte a UNA BREVE RIFLESSIONE SULLE ORIGINI DELLA ATTUALE LACUNA CULTURALE ITALIANA

  1. Gianvincenzo ha detto:

    Una bella e profonda summa della storia d’Italia, e del tuo pensiero, da tenere e rileggere ai più giovani. La condivido in gran parte, a parte l’idea finale che le Brigate Rosse siano state un’occasione persa – a causa degli omicidi commessi – per compiere una rivoluzione nel nostro Paese. Esisteva prima delle BR una sinistra estrema con le stesse idee e senza gli omicidi, ma proprio per il suo sostanziale fallimento nacquero le BR e PL (oggi è tra l’altro l’anniversario del rapimento Moro), che postularono la necessità degli omicidi per cercare di suscitare l’interesse e l’adesione delle frange rivoluzionarie. Coi risultati che conosciamo.

  2. Claudia Caramanti ha detto:

    Cosa pensi di Salvini e

  3. Claudia Caramanti ha detto:

    Hai fatto un bel lavoro. Negli ultimi anni ho ragionato come te, pensando al nostro paese. Siamo tra I Balcani e l’Africa, appesi all’Europa solo dal

  4. matteolilorenzo ha detto:

    Cara Laudia, dei tuoi commenti arrivano solo poche parole, c’è qualcosa che non funziona….

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...